giovedì 19 ottobre 2017

#1 Prisoners: il religioso

La prima cosa di cui vorrei raccontarvi e di cui vorrei mettervi a parte riguarda uno dei detenuti che più ho dovuto tenere a bada durante i miei primi dieci anni, e con cui ovviamente ho avuto più rapporti collaborativi e azzarderei personali.
Si chiamava Ephraim Smith ed era ebreo. Non ho mai avuto pregiudizi personali sugli ideali politici o religiosi di un detenuto. Per me un detenuto valeva quanto ogni altro, indipendentemente dalla sua nazionalità e dal suo credo. Specifico però la religiosità di quest'uomo in particolare, poiché egli la ostentava in maniera così radicale che spesso si perdeva in sproloqui circa la rigorosità della sua dottrina e delle sue regole da seguire.
Per farvi un esempio pratico, quando fu incarcerato richiese che le proprie divise da detenuto fossero di unica fattura e materiale, visto che il mescolare nell'abbigliamento di cotone, seta o altro era proibito dalle norme del suo Dio.
Acconsentii perché ognuno ha il diritto di credere in ciò che vuole, ma se avessi saputo quanto estremista fosse il suo professare, non saprei come sarebbe andata la sua permanenza nel mio carcere. Forse molte cose si sarebbero potute evitare, ma dico a me stesso che questa è solo una sciocca bugia.
Ebbe 11 anni perché circoncise due mussulmani contro la loro volontà, rapendoli da un bar e portandoli a casa propria. Li aveva legati uno alla volta sul tavolo della propria cucina, li aveva denudati e con un coltello a lama liscia li aveva strappato via il prepuzio. I vicini avevano sentito le urla e avevano chiamato la polizia. Fu arrestato immediatamente, ma il suo avvocato riuscì ad evitargli l'accusa di tentato omicidio, poiché dopo la circoncisione li aveva medicati per non farli morire dissanguati. E così ottenne 11 anni, sebbene ne scontò soltanto 10 nel mio carcere.
Vi parlo di lui per due semplici ragioni, molto distinte tra loro e molto legate in un certo senso, nonostante io ci abbia messo anni a capire e collegare il tutto.
Adesso che ripenso a quanto accecato fossi dal suo parlare persuasivo e dolce, non posso fare altro che biasimarmi ed incolparmi in parte per la morte di tutte quelle persone.
Sì, perché Ephraim fu uno dei tanti serial killer di detenuti con cui ebbi a che fare. Uccise 32 carcerati prima che io capissi ogni cosa, sebbene ogni morte seguisse uno schema ed un rituale religioso.
Ma come potevo io intuirlo, se lui stesso mi aiutò a capire cosa stava succedendo?
Come potevo io sospettare dell'unica persona che mi aiutava nelle indagini?
L'FBI non serviva a nulla e le telecamere non riuscivano mai ad inquadrare né omicidi né responsabili.
Come potevo io immaginare che Ephraim faceva sacrifici umani al suo Dio?
Ah, questa è solo la prima delle due cose macabre legate a quest'uomo...

mercoledì 18 ottobre 2017

#0 Prisoners: storie dalla prigione

Da quando è cominciato il mio periodo di pensione, i ricordi di quello che ho vissuto durante il mio lungo arco di carriera lavorativa hanno cominciato ad ossessionarmi. Le memorie delle vicende a cui ho assistito hanno letteralmente iniziato ad invadermi i sogni e a tormentarmi durante il giorno. Quasi come irrefrenabili compagni di viaggio, essi mi seguono come se il nostro tempo non fosse concluso una volta ricevuto il mio congedo per età pensionante raggiunta. Sono lì, sempre, in attesa e immobili. Pronti a gettarmi nel baratro da cui pensavo di essere uscito sopravvissuto.
Uno dei miei migliori amici mi ha suggerito di raccontare tutto a qualcuno competente, magari un giornalista in grado di trarne un'inchiesta o addirittura un romanzo su tutte le vicende. Ma come potrei mai io vuotare il sacco su vicende che a stento riesco a comprendere io stesso? Sembrerei pazzo e sciroccato e dubito altamente che un professionista mi prenderebbe sul serio invece di deridermi e dirmi che sono solo un vecchio bacucco.
Allora cosa ho pensato di fare? Come ho deciso di combattere questi tormenti con le mie forze? Ho tempo praticamente da vendere, visto che non lavoro più. Se pian piano fossi io stesso a raccontare la mia storia scrivendola come un reportage, un'inchiesta o come un romanzo? Per questo motivo scrivo su questo blog, ogni giorno aggiornerò la narrazione con un pezzetto in più delle vicende che mi sono capitate, così da confessarle tutte una buona volta, alleggerendo il mio animo e la mia mente dilaniata.
Ah, dimenticavo di dirvi che lavoro ho fatto nella vita.
Sono stato il direttore di un carcere misto per oltre 40 anni.
Ho visto cose che tutti stenterebbero a prendere per vere.
Serial killer di prigionieri, complotti, sette segrete, traffici clandestini, possessioni, radicalismi politici, suicidi, estremismi religiosi, fantasmi, anime vaganti...
Ho visto tutto e quindi voglio raccontarle tutte queste mie storie dalla prigione.

martedì 10 ottobre 2017

#24 Le espiazioni: blasfemia

La contraddizione degli atei e degli agnostici è quella di screditare chi crede in qualcosa. Non credere in niente o credere in qualcosa di completamente personale e unico, non dà il diritto di gettare fango sulle credenze di qualcun altro. La religione, la fede e la speranza sono tutti elementi in cui una persona ripone le proprie fragilità, chiedendo umilmente che vengano protette da qualcuno o qualcosa in grado di farlo. Perché chi riesce a farlo da sé dovrebbe avere il diritto di umiliare chi non non ce la fa?
Mark faceva parte di questa categoria di persone. Lui credeva in sé stesso. Lui credeva unicamente nelle proprie forze e nelle proprie capacità. Il suo non credere alle religioni lo portava automaticamente a criticarle pesantemente, dando discredito ai suoi seguaci.
Quel giorno in chiesa, al matrimonio di uno dei suoi migliori amici, non sopportava più l'eterna lunghezza della cerimonia. Era in piedi, in un angolo accanto ad una colonna portante, e sospirava sudando nel suo completo gessato.
"Bla, bla, bla e quindi bla", erano le uniche cose che riusciva a sentire oltre al calore asfissiante.
Dinanzi ai suoi occhi c'erano centinaia di persone timorate e piegate ad ascoltare. Lui non le capiva. Non riusciva a concepirle neanche lontanamente. Voleva scuoterle e farle riprendere, voleva riconsegnargli il lume della ragione che evidentemente avevano perso.
Su, ragazzi! Svegliatevi un po', cazzo! Chiudiamo qui questa farsa e andiamo a mangiare al ristorante. Sento di svenire per tutta la fame che ho!
La forza di chi crede in sé stesso è che qualsiasi situazione può affrontarla da sola. Nessuno però parla mai della debolezza che queste persone hanno. La fragilità di chi crede in sé stesso è che quando inevitabilmente non si riesce a fare qualcosa, ci si sente completamente inutili e falliti. L'autostima è dura finché non incontra una scarica di mitra.
Sospirò all'ennesima decantazione della misericordia e si grattò la schiena, dove aveva da poco fatto un nuovo tatuaggio. L'ala demoniaca che gli scendeva lungo la spina dorsale sembrava percorsa da miriade d'insetti scalpitanti. Un prurito inaudito, un prurito quasi interiore.
Gli girava la testa, ma sapeva che non poteva allontanarsi da lì. Lo sposo lo conosceva bene e ogni tanto si voltava a fissarlo. Aveva promesso di essere lì, se si fosse allontanato non glielo avrebbe perdonato mai.
"Può baciare la sposa", si sentì poi e la cerimonia finì poco dopo, accompagnati dal sollievo di Mark.
Nessuno si mosse però. Tutti restarono immobili.
Che stava succedendo? Perché nessuno andava via? La cerimonia era finita!
"Siamo qui riuniti oggi per celebrare l'unione davanti a Dio di..." e tutto riprese dall'inizio.
Si guardò intorno stralunato, venendo poi fissato nuovamente dallo sposo.
La cerimonia stava ripartendo da capo, senza che nessuno obiettasse o si opponesse.
Che diavoleria era mai quella?
Fu dopo che ricominciò la quinta volta, che Mark capì che quella cerimonia sarebbe durata per sempre.

"Questa è per la croce che ho tatuata sul viso", spiegò l'assistente si Solomon, sorridendo con i suoi denti aguzzi.
"Io sono agnostico, ma non scredito chi crede in qualcosa di religioso".
"Lo so", rispose. "Volevo solo farti capire che l'espiazione non significa unicamente che tu debba morire. A volte l'espiazione significa vivere per sempre nell'agonia...".

mercoledì 20 settembre 2017

#15 Le espiazioni: guardami sbranato

Si erano addormentati mano nella mano, felici e contenti. E si erano risvegliati con queste ultime ancora serrate. Magari in maniera più forte e violenta, ma sempre cinte tra loro.
Si erano assopiti in un luogo di una calura unica e confortante, con tanto di luci soffuse, profumi d'ambiente e coperte. E si erano risvegliati in una puzza tremenda ed un freddo micidiali. Le luci però erano ancora soffuse.
Si erano addormentati con entrambi un tatuaggio sull'avambraccio destro. Ora nessuno dei due lo possedeva più.
Si erano addormentati distesi su un letto, si erano risvegliati appesi a un gancio.
Sì, appesi a un gancio. Un gancio che gli si conficcava ad entrambi dietro alla schiena e si arpionava appena sotto le costole. Il sangue che era uscito era stato copioso, ma il freddo di quella cella frigorifera aveva interrotto il fiotto. Tuttavia la sensazione di dolore lungo la schiena e le ossa, come qualcosa che ti sta tirando via l'anima, era ancora vivida. E sembrava che lo sarebbe stata per sempre.
L'uomo era sveglio e la sua barba era ghiacciata. La donna dormiva e da un angolo della bocca le usciva un rivoletto di sangue marrone e secco. Avevano le dita incrociate e saldate insieme dal ghiaccio, ma i piedi di entrambi oscillavano immoti nel vuoto. Intorno a loro carcasse di animali scuoiati e puzza di carne marcia.
La ragazza si destò all'improvviso e cercò invano di agitarsi e capire cosa stava succedendo. Non riusciva ad urlare, come anche il suo fidanzato appeso accanto a lei. Erano impotenti ed algidi, neanche la più grande forza decisionale e di volontà avrebbe potuto aiutarli.
Da dietro gli animali morti e grondanti sangue, fuoriuscirono delle persone a loro sconosciute. Pallide, affamate, bramanti. Annusavano l'aria come cani in cerca di funghi e fissavano i due con ingordigia e appetito.
Aiutateci, cercarono entrambi di bofonchiare, senza nessun risultato.
Poi inaspettatamente, tutti gli furono addosso cominciando a sbranarli freddi ma vivi.

"Aiutare il prossimo è una delle più belle azioni che si possono fare", proruppe Solomon dopo un altro quarto d'ora d'incisione, accompagnato da un ulteriore racconto di vecchi clienti.
"Tuttavia nessuno si rende conto che il non farlo è un peccato veramente atroce e maligno. Non aiutare, mostrarsi indifferenti, agire da ignavi. Trasmette freddo e cattiveria verso chi invoca aiuto, ma soprattutto li fa sentire sbranati da lacerazioni esterne... che giungono fino al cuore e la mente".

sabato 26 agosto 2017

#1 Le espiazioni: annegamento da fumo

Solomon mi si avvicinò portando con sé un grosso raccoglitore pieno di fogli.
"Se non hai portato un'immagine con te, qua posso mostrarti varie versioni di cobra da poterti tatuare".
Afferrai il librone e mi parve che pesasse centinaia di chili. Me lo poggiai sulle gambe, sentendo le ossa e le articolazioni lamentarsi per il dolore. Cominciai a sentirmi confuso e leggermente rintontito, e questo mi portò a focalizzarmi su uno dei tattoo che l'uomo aveva sul bicipite destro.
"Cos'è quella nuvoletta spumosa e brumosa che hai? Sembra viva, lucida e irreale", domandai incuriosito e rapito dall'immagine.
"Sicuro di volerlo sapere?".
"Sì", mi ritrovai a rispondere senza neanche averne la consapevolezza.
"Beh...", cominciò lui.

Stu era un uomo di quarant'anni, pelato e con gli occhiali. Lavorava in ufficio senza sosta stressandosi dalla mattina alla sera e passava poco tempo con la propria famiglia. Non aveva mai fatto mancare niente ai suoi cari, se non la propria presenza. Era però giustificata quest'ultima e quindi nessuno osava rinfacciarglielo in qualche modo. Chi d'altronde avrebbe potuto?
Stu aveva un simpatico vizio, in fondo ogni uomo ha il proprio... c'è poco da fare. A Stu piaceva fumare, a Stu piaceva fumare un sacco. Consumava in effetti circa quaranta sigarette al giorno e non desiderava altro se non l'inizio di una nuova giornata per poterne fumare altre quaranta. Non ne poteva fare a meno, anche se gli effetti erano visibili, considerato l'affanno costante che si trascinava dietro da anni. 
Quando decise di farsi un tatuaggio, il nome di Solomon gli capitò davanti agli occhi per caso. Un post sponsorizzato su Facebook apparì dal nulla sulla home che saltuariamente faceva scorrere.
I tattoo di Solomon non si pagano, i tattoo di Solomon sono gratuiti. L'artista però esige un altro tipo di prezzo da te. Dovrai fronteggiare i tuoi peccati, ammetterli ed espiarli. Altrimenti i peccati espieranno te.
E così era corso a farsi un tatuaggio, una roba da poco, una roba scontata. Un piccolo laghetto al tramonto con un colibrì. Adorava i colibrì, era una delle specie animali che lo affascinava di più. La velocità del loro battito d'ali, il poter restare sospesi ad aspettare... ad osservare. Una velocità che lui non aveva più da molto tempo ormai, a causa di quel dannato affanno.
Quando uscì dallo shop con il disegno nero sul petto, si rese conto che in effetti non gli aveva fatto per niente male. Anzi, si sentiva stranamente bene, rilassato, come se si fosse tolto un peso dallo stomaco.
Decise di fumarsi una sigaretta, per cui si fermò sotto un albero e cavò il pacchetto dalla tasca. Ne prese una, l'avvicinò alla bocca e l'accese inspirando una profonda boccata. Il sapore che sentì fu però di sangue.
Sangue. Sangue. Sangue. Dentro di sé una fontana in piena sgorgava e riempiva gli anfratti. Emetteva e s'infiltrava in ogni orifizio ed insenatura. Il sangue si muoveva come mille serpenti e annegava qualsiasi cosa ci fosse da annegare. Il sapore metallico che sentiva nei polmoni era così intenso che sembrava avergli permeato il cervello. Tossì, tossì pesantemente, ritrovandosi un grumo di sangue sulla mano. Si spaventò ed alcune lacrime gli riempirono gli occhi. Cominciò a vedere rosso, perché quello che piangeva erano lacrime sangue.
Un'ombra si stagliò all'orizzonte, sfocata ed indistinta. Lo fissava accecandolo con il tramonto alle sue spalle e restava in attesa come un colibrì pensante. Stu si strappò la camicia e notò che il suo tatuaggio non c'era più, era svanito. Ma perché? Come mai?
Prima che potesse rispondere a tutto questo, il sangue interiore aumentò e il suo tossire anche. E Stu svanì come una nuvoletta di fumo perché non aveva ascoltato le parole di Solomon.
Non aveva espiato il peccato che avrebbe dovuto.

giovedì 24 agosto 2017

#0 Le espiazioni: tatuarsi un'anima

Andai a fare un tatuaggio da un uomo chiamato Solomon, poiché tutti i miei amici avevano già usufruito dei suoi servigi. Era un uomo riservato, misterioso e ricoperto di tattoo dalla testa ai piedi. Il suo stile non era uno stile comune. Al di là dell'assurdo realismo che imprimeva nelle sue creazioni, i tatuaggi che sfoggiava sul proprio corpo erano impressionanti e spaventosi. Un miscuglio caotico di qualcosa che nessuno avrebbe mai potuto capire.
Mi presentai all'appuntamento circa un'ora prima, fermandomi lungo il marciapiede a fumare una sigaretta. Poche persone camminavano per la via, mentre il sole si attardava a raggiungere l'orizzonte. Era pomeriggio inoltrato e un cielo limpido sovrastava quelle strade malfamate.
Entrai nel negozio soltanto dopo aver calpestato la cicca con il tacco della scarpa e comunicai alla ragazza della reception che avevo prenotato una seduta. Lei mi disse che potevo tranquillamente entrare in stanza, visto che non c'erano altri clienti e Solomon era all'opera su sé stesso in attesa di qualcuno.
Varcai la soglia senza pensarci più di tanto e respirai lo stantio odore di pareti non arieggiate ed inchiostro fresco. Mi girò la testa e mi appoggiai alla parete per un secondo. Solomon era lì, a torso nudo, piegato su una sedia si percorreva il ginocchio con l'ago di una macchinetta per tatuaggi, calcando quello che forse era un vecchio disegno, anche se  non avrei mai potuto essere sicuro circa il fatto che fosse o meno un tattoo nuovo.
"Accomodati", mi ordinò senza distrarsi dalla sua operazione.
"Cosa si sta tatuando, se posso chiedere?", domandai, cercando di scorgere un senso a tutte quelle linee e quegli arabeschi che gli circondavano il ginocchio e la gamba. Da solo non ci riuscivo minimamente, anche perché l'inchiostro era strano e troppo irreale. Quei disegni erano lucidi e pulsanti, come se racchiudessero qualcosa sotto la pelle. Erano gonfi come ferite, gonfi come ogni tattoo appena fatto.
"Un'anima", rispose secco, continuando il proprio lavoro.
Lo fissai interdetto, pensando a come si potesse disegnare un'anima, per cui decisi di aspettare e vedere il risultato finale.
"Cosa vuoi tatuarti?".
"Un cobra".
"Di che grandezza?".
"Una quindicina di centimetri".
"Dove?".
"Sul braccio destro".
"Perfetto" e si alzò in piedi smettendo di disegnare su di sé. Il risultato finale era una sfera nera, lucida e gonfia che pulsava e perdeva un po' di sangue. Mi fece impressione fissarla, ma non potei farne a meno.
"Come mai i suoi tatuaggi sono diversi da quelli che vedo sulle altre persone? Usa una tecnica particolare e sconosciuta per sé stesso?".
"No, non è così complesso. I miei tattoo, a differenza di quelli degli altri, non guariscono. Non guariscono mai, affinché io possa sempre ricordarmi di loro e della loro presenza", spiegò sorridendo in maniera macabra e facendomi rabbrividire.
"Come sarebbe a dire?", domandai spaesato e confuso.
"Io non prendo soldi per tatuare le persone. Chi vuole uno dei miei lavori, deve espiare poi i propri peccati. Chi non è avvezzo a tutto questo, muore ucciso dalle proprie colpe e io sono costretto a tatuarmi per sempre e dolorosamente la sua anima. Un tatto inguaribile che non permette a me di dimenticare la vita che ho stroncato".
E a quel punto impallidii, venendo stritolato dalla consapevolezza che quell'uomo di nome Solomon forse un uomo non era.

giovedì 6 luglio 2017

#11 Savior: gatti

Viveva da solo praticamente da sempre, e mai se n'era lamentato con qualcuno.
Era figlio unico e i suoi, che vivevano lontanissimi dalla propria famiglia, erano morti quando era ancora un ragazzino. Nessun parente era andato a prenderlo, nessuno si era fatto carico di lui. La responsabilità sarebbe stata troppo grande. Con l'aiuto dell'eredità dei suoi parenti defunti aveva vissuto ed era cresciuto in un istituto. Raggiunta la maggiore età era ritornato a casa, cercando di impugnare il proprio destino.
"Blinky, vieni! Sto riempiendo la ciotolina! Anche voi tre, venite su!", annunciò ai suoi quattro animaletti pelosi, agitando la scatola dei croccantini nei pressi delle scodelle di plastica.
I miagolii si alzarono incessanti e lui fu sommerso dalle fusa e dai peli di ognuno di essi. Amava i suoi gatti, erano l'unica reale compagnia che aveva.
Con l'immensa fortuna economica avuta dai genitori, piazzava degli investimenti in borsa. Utilizzava siti di acquisto e vendita di prodotti online, per comprare le cose, e chiamava il supermercato vicino per farsi consegnare la spesa. Non usciva mai, non vedeva nessuno, non aveva amici reali oltre ai gatti.
Ultimamente però capitava una cosa molto strana all'interno della sua abitazione. Avvertiva dei rumori, percepiva degli sguardi strani e i suoi gatti erano molto più tesi e reattivi del solito. Teneva sempre le luci accese, ma continuavano a fulminarsi. Tant'è che aveva cominciato ad accumularne un bel po' per non restarne sprovvisto.
I suoi gatti cominciarono a portare cose morte in casa, di punto in bianco visto che mai avevano fatto una cosa simile. Topolini, lucertole, scarafaggi. Un giorno gli portarono addirittura un dito umano, ma non gli diede troppo peso.
Quando dopo due settimane di totale isolamento, il postino bussò per recapitargli una missiva, la porta era aperta.
C'era una puzza tremenda, rivoltante. Senza nessun apparente motivo, entrò nell'abitazione. Quello che vide fu schifoso quanto spaventoso.
I gatti giocavano tra loro, lanciandosi una grossa palla con le zampe. Correvano avanti e indietro e la sfera sporcava tutta la pavimentazione. Era una testa. Una testa decapitata e insanguinata.
Con loro c'era anche il padrone di casa, decapitato ovviamente. L'unica cosa era che stava giocando anche lui, producendo uno strano miagolio dal collo esposto. Era diventato come loro. Era diventato loro. Era un gatto.
Quell'uomo era morto da sempre, solo che mai se n'era reso conto.

"Perché ci hai raccontato questa storia?", chiese Lizzy al parassita.
"Perché anche i gatti sono mietitori".

lunedì 26 giugno 2017

#1 Fears of mankind: Autopsy

If I must be honest, I love the place where I work. Quiet, cold, dark in a perfect way, close, huge and isolated. The white shiny tiles, which shine a little bit thank to the unique neon light in the room, have always got me comforted as my iron trolley with my autopsy tools. I can feel owner in my mortuary, I can be avenger and arbiter. I’m the one that knows what to do and I’m the one that explain to the others what they need to know. The people listen to me, the deceased respect me. I can be quiet and I can work without problems. Also the salary is good.
That Tuesday I had five cases to solve. Five people were died in a cruel way and the police station asked for an accurate autopsy. That day my neon light was noisy in addition to its usual unstable sparkling. I arrived to the mortuary when the dinner time had already passed and I knew I should probably have worked until the next day. That was not the first time I stayed during the night, the people never die in the right day moment for legal doctors.
I got the first document after had changed my dresses and I faced that it was a young lady, too young. Twenty-five years old, brunette, pale skin. When I removed the white sheet, besides seeing her delicious and died nakedness, I easily found eight cut hurts on her body. One of these was under her left bosom, a bosom very big and young. On the police record, there was written they had discovered her in a blood lake with her crying boyfriend. There was also a knife near them. He had denied, denied, denied.
It was not his fault. And my neon light seemed to be annoyed for this, so it started to stagger more.
They were a perfect couple, they had loved each other since more than one years. It was not him the killer. He had just found her in that way. Who? Who was the murderer? He wanted to know this! My neon light was getting angry.
That case was very simple, I had already understood why she was died. What I could do was to add some important deatils, maybe something about drugs or alcool, sexual illness, rape hurts, fighting hurts, semen. A dead body can speak better than an alive mouth.
I saw her with my personal sadness about that stupid tragedy. It should not have happened. In front of her there was an entire life! She was young, too young! I had to work hard, I had to found the truth for helping the police. My neon light seemed not to be agreed with this.
I observed her hurts after wearing my plastic gloves, I got the scalpel e I started to figure out where I could begin my work. Why had she got all of this?
Then, suddenly, she opened her eyes. She spread them totally out. Light blue, deep, vitreous. She looked at me scared and angry at same time. I shivered, I froze. My neon light was literally getting crazy, in a while it would be blown up.
“It was him! I raped me… I reacted… he killed me to stop me… I need to go there… I need to meet him… can I?”, she spoke with a guttural and ghostly voice, trying to stop her lips going down. I was a salt sculpture, I didn’t reply.
She stood up, took my scalpel and left, naked how she was, while I couldn’t do anything. She opened the door and left. My neon light blew up with a big noise. I put my hands on my iron trolley to avoid falling. The other deceased started to groan.

sabato 24 giugno 2017

#1 Savior: piscina di sangue

Quando si sedette a bordo piscina, per riprendere un po' fiato dopo tutte quelle vasche, si accorse che quasi la metà delle ragazze era già andata a fare la doccia.
Si sentiva sfinita, distrutta fino allo stremo. Stava cominciando ad odiare quella faticosa acqua che puzzava di cloro.
La sua allenatrice le spingeva al massimo, le spingeva oltre i loro limiti, dava loro il sogno di una impossibile olimpiade. A sedici anni, senza gare né allenamenti mirati, era ormai improbabile raggiungere quei livelli e finire in quella tipologia di competizioni.
Si alzò in piedi, lasciando che le mattonelle sotto il suo sedere si bagnassero di più e si diresse verso gli spogliatoi, cercando di non scivolare. Non aveva portato le ciabatte, come una stupida le aveva lasciate in borsa.
"Signorina!", disse una voce alle sue spalle. "Non si cammina lungo questa zona senza niente ai piedi! Potrebbe farsi male e gettare acqua ovunque!".
Si voltò per scusarsi, per giustificare quel suo comportamento, ma quando si girò vide un uomo mai incontrato prima. Doveva essere il nuovo istruttore delle classi maschili, un uomo che lei non aveva mai visto.
Era in quei momenti che Lizzy odiava il suo dono, quello di poter vedere oltre, di poter vedere tutto senza filtri. Sapere ogni cosa di una persona senza chiedere il permesso né averne la voglia.
Lo vide sudato a guardare la televisione con tantissime bottiglie di birra vuote sul divano, lo vide scrutare la moglie che piangeva facendo i piatti, lo vide costringerla a scopare, lo vide rompere una sedia soltanto perché la sua squadra aveva perso una partita. Lo vide tossire, lo vide bere. Lo vide guidare e andare a lavoro. Vide quando da piccolo suo padre lo picchiava perché gli piaceva stare in stanza nudo a fissarsi allo specchio, lo vide al mare mentre accarezzava sua figlia. Vide quando abbastanza cresciuto rispose a suo padre, lo picchiò e andò via di casa senza mai più ritornare. Lo vide piangere, lo vide fumare. Ma quello che vide per ultimo, fu sua figlia legata in cantina come un animale. Segregata, frustata e piangente. Adagiata a terra a mangiare in una ciotola, e questo solo perché aveva risposto male.
"Ha capito quello che ho det..." e con un pugno dritto sul naso Lizzy lo buttò a terra, facendogli perdere i sensi.
Una rabbia anormale le era salita in corpo, cruda e selvaggia come mai lo era stata prima. Quell'uomo era una bestia, uno schifoso porco e un lurido padre. Un uomo che aveva sofferto ed aveva fatto sì che la sofferenza fosse il suo comportamento per il futuro.
Lizzy non lo poteva tollerare.
Ma adesso, con lui a terra e con il naso rotto, cosa diamine doveva fare?
Gli diede comunque un calcio nelle palle prima.

giovedì 22 giugno 2017

#0 Savior: Il potere di Lizzy


Si chiamava Lizzy, aveva sedici anni e amava camminare lungo le strade della città. Lizzy era un'osservatrice, un'ascoltatrice, una a cui interessavano i dettagli del mondo e quelli delle persone che lo abitavano.
Lizzy era una ragazza normalissima, i cui interessi rasentavano il comune. Ascoltava la musica rap, leggeva libri gialli, seguiva corsi di nuoto. La normalità più assoluta.
Era uno soltanto il problema di questa ragazza, uno che a primo impatto potrebbe anche non destare nessuno scalpore. Il problema di Lizzy infatti era che i suoi occhi... potevano vedere.
Non ricordava quando fosse realmente iniziata questa cosa, se mai fosse esistita una vera e propria prima volta, fatto sta che il suo sguardo poteva andare oltre quelle che possiamo definire apparenze.
Lizzy si sedeva nei bar a consumare una semplice colazione? Nell'istante in cui andava via, la sua mente era affollata e piena della vita di tutti.
Se voi poteste andare a fondo nel cuore e nell'anima di un essere umano, cosa vi mettereste mai a cercare? I peccati? Le buone azioni? I segreti? L'amore? Le paure? I dolori? Da cosa vi lascereste ammaliare? Potreste sopportare la mole di tutti i ricordi di un uomo?
Lizzy non poteva evitarlo in nessun modo. Lizzy scorgeva distrattamente gli occhi di qualcuno e la sua vita le veniva servita su un vassoio d'argento splendente. Tutto quello che aveva vissuto, pensato e fatto si dispiegava come un tappeto appena pulito. Lei non scavava nelle persone, lei si ritrovava dentro il più profondo dei loro anfratti senza neanche desiderarlo.
Aveva scoperto che suo padre tradiva sua madre. Aveva scoperto che sua madre spendeva più soldi di quanto dicesse. Aveva scoperto che suo fratello non riusciva ad ammettere la sua omosessualità per i violenti bulli che c'erano a scuola. Aveva scoperto che la sua migliore amica era innamorata profondamente di lei.
Aveva scoperto tante cose, come anche il fatto che sapere tutto è soltanto una macabra condanna.
Tutti vorrebbero la conoscenza, ma per fortuna nessuno la possiede davvero.
Se un raggio di sole rischiarasse la mente dell'uomo, gli brucerebbe il cervello.
Bastava voltare lo sguardo e Lizzy cadeva nei vuoti delle anime, cogliendone ogni fottuto dettaglio.
Può sembrare simpatico, ma non lo è minimamente.
Immaginate di guardare all'interno della vera realtà degli uomini.
Se vi trovaste qualcuno di malvagio? Se vi trovaste qualcuno di violento?
Se vi trovaste qualcuno non più vivo?
E se vi trovaste qualcuno che non è umano?
Lizzy poteva vedere...

venerdì 2 giugno 2017

#13 Horror Club: l'uomo che mangiava i vestiti

Lavorava ormai da anni in quella gigantesca lavanderia industriale, tant'è che mancava poco alla sua promozione a caporeparto. Non era un mestiere molto faticoso, anche perché con l'avvento delle nuove tecnologie molti ruoli della catena di montaggio erano pressoché sostituiti dai macchinari. Erano poche le mansioni rimaste e spesso queste ultime non erano altro che tener sotto controllo il funzionamento di quelle braccia meccaniche. A lui piaceva quel lavoro, non gli dava neanche troppi problemi ... forse.
Luca ad esempio era uno di quei dipendenti che non aveva mai potuto sopportare. Un ragazzo schivo, timido, preoccupato, uno di quelli che non cerca di stringere rapporti con nessuno, ma che poi diventa una sanguisuga con l'unico essere umano a cui aveva furtivamente detto ciao. Luca aveva detto a lui ciao e Luca era diventato la sua ignobile sanguisuga. Lo perseguitava, lo seguiva, gli offriva il pranzo. A volte gli chiedeva anche come stesse sua moglie, donna che non aveva ma incontrato. Altre volte invece non lo degnava di uno sguardo ed in particolare accadeva nei giorni in cui sembrava depresso. Si presentava a lavoro abbattuto e pallido come un cencio, si dedicava con pigrizia alle sue mansioni e restava con lo sguardo nel vuoto per ore, estraniandosi dal mondo. Questo era un aspetto che lo inquietava. Ciò che però lo spaventò di più accadde un giorno in cui entrambi restarono per degli straordinari notturni.
Erano soli, avevano una mole esorbitante di lenzuola da lavare e l'unico che riusciva ad usare i macchinari più grossi non era Luca. Questo significava che avrebbero dovuto lavorare separati, uno in una stanza e l'altro in un'altra. Si trattava di alcune ore, ma il suo collega stava attraversando una di quelle giornate di depressione. Alle tre passate infatti andò a vedere come se la stava cavando e quello che vi si parò dinanzi fu impensabile.
Luca era carponi su uno dei tavoli allestito per il piegamento dei tessuti più grandi. Contorto in una posizione animalesca mangiava voracemente le lenzuola. Le addentava come se fossero prede succulente, come se fossero gazzelle divorate da un leone. I suoi occhi non avevano pupille e dalla bocca gli colava sia sangue che bava bianca. I suoi denti producevano un rumore grottesco e neanche riusciva ad immaginare come potessero lacerare le lenzuola fino ad ingoiarle. Le mani stringevano così forte quelle stoffe che parevano indemoniate. Il suo ventre era gonfio e di un colore violaceo. C'era una puzza di morte indescrivibile.
Cosa cazzo stava succedendo? Cosa diamine era preso a quell'uomo? Stava mangiando quelle lenzuola come se fossero pezzi di carne gigante! Era indemoniato? Era posseduto? Era fatto? Era impazzito?
Non cercò di farlo rinsavire per due motivi molto semplici. Il primo era legato al fatto che fosse letteralmente terrorizzato dalla situazione.
Il secondo era legato al fatto che non c'erano soltanto le lenzuola sul grosso tavolo su cui era carponi Luca, no. In un angolo, mordicchiati e appena appena lacerati, c'erano dei vestitini di sua moglie e alcuni maglioni di suo figlio.
Fino a che punto Luca era diventato la sua sanguisuga?
Non lo voleva sapere ... preferì prendere le chiavi di casa e andare a controllare come stesse la sua famiglia.

Raccontò la sua macabra storia con la sua voce squillante, cercando di dare un'intonazione adeguata ad ogni passo. Ci fece rabbrividire, sembrò essere come un doppiatore dell'orrore fuoriuscito dai tenebri fotogrammi di un film maledetto.
Controllai se i miei vestiti avessero dei morsi per puro riflesso incondizionato, quella scena era stata rivoltante e spaventosa allo stesso tempo.
Toccava a me ora, ma non avevo idea di cosa dover narrare. L'ultima storia da me detta era fuoriuscita automatica dalle mie labbra, tant'è vero che da solo mi ero spaventato. Non l'avevo inventata né pensata, era uscita dalle mie labbra e basta.
Adesso però ero vuoto, vacante, dissacrato. Toccava a me e non avevo storie dell'orrore. 
Venni salvato dall'uomo con la cicatrice, il quale alzandosi in piedi dichiarò conclusa quella prima seduta. Potevamo tornare a casa, potevamo riposare. Ci saremmo visti il pomeriggio seguente, allo stesso orario, allo stesso posto. Non dovevamo preoccuparci di niente, aveva tantissime novità di cui svelarci i misteri...

martedì 30 maggio 2017

#11 Horror Club: l'amante addolorata

Non voglio farle delle domande indiscrete, ma lei ha notato qualcosa di strano nel suo ragazzo in questo periodo?
Qualcosa di strano? Del tipo?
Non so, nervosismo, irrequietezza. Magari delle manifestazioni di comportamenti violenti.
Stesa di fianco a lui ripensava alle domande che il detective le aveva posto. Lui dormiva beatamente al suo fianco, mostrandole una schiena bianca e pallida con alcuni nei nerastri. Respirava sommessamente. Le luci blu psichedeliche della stanza stonavano più dell'erba che avevano fumato. Era la prima volta che si rendeva conto dell'assenza delle finestre. Il fumo come faceva ad evadere da quel posto se la porta la tenevano sempre ben chiusa?
No, è sempre stato lo stesso da quando ci siamo messi insieme. Lavora, passiamo del tempo insieme, usciamo, scopiamo. Le solite cose. Non succede mai niente di nuovo o di diverso nella nostra vita.
Ne è sicura? Non gli ha mai visto addosso dei segni di colluttazione? O del sangue magari? In casa sua ha mai visto un tubo di ferro? Un tubo da lavandino?
No, mai visto niente di simile. Penso che avrei chiamato la polizia se mai fossi incappata in qualche stronzata del genere.
Eppure il tubo lui lo aveva sempre con sé, non se ne separava mai. Quando non uscivano, lo teneva poggiato su di un lato del letto, a portata di mano. Se invece abbandonavano la stanza, lo metteva sul proprio cuscino. Il tubo da lavandino era il suo orologio da polso. Lo lucidava, lo puliva, lo lavava. A volte comprava della vernice per pitturarne i punti in cui aveva preso qualche colpo violento. Lei non sapeva il motivo per cui fosse inseparabile da quell'oggetto, non sapeva neanche per cosa lo usava. Spesso era capitato che lo adoperasse per scoparla, come un vibratore manuale. La lubrificava e piano piano glielo spingeva dentro. Quella sensazione di freddo e di durezza le piaceva. Lui riusciva a farlo muovere con delicatezza su e giù, dentro e fuori. E la faceva venire piacevolmente. Non c'era niente di strano. Forse morboso, ma non violento o strano.
Se dovesse accadere qualcosa o se dovesse notare una qualsiasi anomalia sospettosa, la prego di chiamarmi. Non voglio allarmarla, ma forse lei convive con uno spietato serial killer.
Okay, vi terrò aggiornati.
Aveva tenuto quel biglietto da visita, senza farne parola con lui. Non voleva allarmarlo, non voleva che si spaventasse. Lei non aveva detto niente di compromettente, se mai ci fosse stato qualcosa da compromettere.
Si svegliò di soprassalto, afferrando al volo il tubo da lavandino come per difendersi da un nemico. Non c'era nessuno tranne la sua amante. La fissò con dolcezza. Lei non sapeva che lui era a conoscenza di quell'incontro con la polizia, di quell'incontro col detective che gli stava alle calcagna. La bacio sulle labbra, le leccò il collo e con malizia le passò la spranga sulle gambe. Le sfilò le mutandine, le fece allargare le cosce e come di consueto le infilò il tubo di ferro nella vagina, placidamente, lussuriosamente.
"Un testimone in meno è una bocca mancante che può confessare" e con un violento scattò spinse il tubo dentro, arrivando a perforarle addirittura lo stomaco. Il sangue addolorato riempì l'intero letto, più delle urla stesse.

L'uomo con la cicatrice bluastra si guardò intorno una volta terminata la sua terza storia. Sembrava toccato, commosso dalle sue stesse parole. Il fatto che narrasse racconti biografici stava prendendo più consistenza che mai, difatti pareva che avesse chiaramente esposto l'omicidio della sua donna. Era lui il serial killer del tubo da lavandino? Quante persone aveva ucciso prima di entrare in quella stanza con noi? Era lui il fondatore di questo Club? Perché darci le pillole?
Considerando poi gli effettivi poteri che stavamo acquistando e le ultime storie raccontate, sovvenivano anche altri quesiti. Aveva raccontato questa storia poiché già accaduta oppure lo aveva fatto per uccidere narrativamente la sua ragazza cosicché non parlasse col detective? Non aveva preso tablet né fatto dirette, come potevamo mai capire che fine aveva fatto quella donna? Il detective sarebbe morto nei prossimi racconti o sarebbe riuscito a fermare il serial killer del tubo?
La ragazza dell'eterocromia si alzò in piedi...

martedì 23 maggio 2017

#5 Horror Club: la macabra casa

Se potessi cambiare le cose, tu non faresti altro che fare ciò che va fatto.
Non ricordava dove aveva sentito questa frase. Un film? Un libro? Una canzone? Una poesia? Dove? E fondamentalmente cosa significava? Era una giustificazione a qualcosa? Agli errori? Agli errori degli altri?
Si lavò le mani nel lavandino della cucina, si buttò una spruzzata gelida in faccia, cercando di capire cosa fare.
La famiglia felice è quella che vive in una grossa casa che tutti amano e tutti invidiano, dove le persone vogliono essere invitate costantemente a cena. La famiglia felice è quella che va al parco con le famiglie amiche, quella che va alle feste cittadine con tutti i vicini, facendo sfoggio dell'educazione dei propri figli. La famiglia felice è quella che falcia il prato e mangia in giardino d'estate.
La famiglia felice non è quella che punisce la figlia non ancora maggiorenne che passa la notte fuori tornando ubriaca e senza mutandine. La famiglia felice non è quella dove il fratello maggiore rinchiude nell'armadio per sei ore il minore della casa. La famiglia felice non è quella che compra gli alcolici al padre di famiglia che poi picchia la moglie. La famiglia felice non è lo stupro quotidiano dell'immagine che gli altri si sono fatti di essa .
Guardò fuori dalla finestra, scorgendo la luna dietro una manciata di nuvole bluastre. C'era silenzio, c'erano orologi fermi, c'era ancora sangue sulle sue dita tremanti. Si gettò altra acqua sul volto. Doveva togliersi quei vestiti, doveva fuggire, doveva dare fuoco a tutto. Doveva dimenticare cosa cazzo era successo tra quelle maledette e stupide mura.
Suo padre che spacca la bottiglia in testa a sua sorella, sua madre che piange in un angolo. Suo padre che si slaccia la cinta e lega suo fratello maggiore. Suo padre che prende la pistola. Suo padre che comincia a sparare senza alcuna ragione. Il sangue che schizza con le cervella. Lui che piange sotto al tavolo. Nessuno si è accorto di lui tranne sua madre. Sua madre che gli dice di fuggire ora. O adesso o mai più.
Lui che corre e si ferma di colpo vicino al lavandino.
Se potessi cambiare le cose, tu non faresti altro che fare ciò che va fatto.
Ecco dove aveva sentito quella frase. Dal lavandino. Da quel lurido lavandino aveva sentito proferire quelle parole.
Lui che sgrana gli occhi, lui che afferra un coltello, lui che taglia la gola a suo padre.
Il lavandino che ride.
Tardi. Tutto troppo tardi. Suo padre aveva già ucciso tutti...

La voce dell'ultimo narratore non era una voce qualunque, non era una voce normale. Si alzò in piedi e la sua figura fu completamente illuminata dalla luce della candela. Indossava un grandissimo impermeabile verde militare che si sfilò mostrando una stazza deforme. Era pallido, ingobbito, il volto ustionato, protuberanze carnose. Le labbra erano sottilissime e i denti affilati. Raggelarono tutti dopo averlo osservato ed aver associato quella voce roca e maligna a quella figura.
Io non potei fare a meno di pensare ad un vecchio amico di famiglia. Un contadino nostro vicino di casa che, sapendo della mia passione per l'horror, mi aveva raccontato una vicenda che gli era capitata in passato (#16 Paure dell'uomo: Fuggiasco). Sembrava lui, pareva l'uomo spaventoso di quel racconto. Non potei fare a meno di pensarci.
Dopo poco si sedette e tutti ripiombammo nel buio. Cosa sarebbe accaduto adesso? Ma prima che potessi rispondere, l'uomo dalla cicatrice bluastra si alzò in piedi. Era pronto a parlare e tra le dita stringeva qualcosa di strano...

domenica 21 maggio 2017

#3 Horror Club: videogame

Comprai quel videogame horror su una bancarella abusiva per strada. Costava soltanto 92 centesimi e la sua copertina era veramente inquietante. Nera, macchiata da sangue scuro e rappreso, occhi infuocati che ti scrutavano dal buio, denti aguzzi con della bava verde. Non c'era scritto il nome del gioco e neanche chi fossero i produttori e i creatori. Essendo un esperto di quest'ultimi, trovai strano il fatto di ignorare completamente l'esistenza di quel prodotto. Pagai dunque più per curiosità che altro e il venditore fu grato per il mio acquisto. Chissà che razza di indie mi sarei ritrovato per le mani.
Tornai a casa, accesi il mio pc ed inserii il disco. Durante il tempo d'installazione chiusi le tende della mia finestra e spensi le luci. Attaccai lo spinotto delle mie cuffie e mi portai dinanzi allo schermo.
BENVENUTO. SE PER CASO TU FOSSI UNA PERSONA FACILMENTE IMPRESSIONABILE, FARESTI MEGLIO A SPEGNERE QUESTO MALEDETTO COMPUTER. SAREBBE COMUNQUE TARDI, MA POTRESTI SALVARE QUALCOSA DI TE STESSO.
Cominciavamo bene. Quella scritta mi incuriosiva tremendamente. A volte gli indie, senza nessun tipo di limitazione, contengono delle genialità che passano inosservate ai molti.
SE SEI ANCORA QUI, VUOL DIRE CHE ANCORA DEVI COMPRENDERE A PIENO LA TUA PAZZIA.
E poi il gioco partì, inaspettatamente, in maniera diretta, senza dover passare per schermate di avvio in cui poter settare opzioni, difficoltà, salvataggi, caricamenti. Il personaggio era alto e snello e indossava dei vestiti anonimi, stile casual. Si trovava in piedi in una strada di città completamente deserta, in prossimità di un vicoletto. Avanzai, guardandomi prima intorno nel caso in cui apparisse qualcosa o qualcuno alle mie spalle, e svoltai nella piccola stradina. C'era una bancarella abusiva, con un uomo identico a quello da cui avevo comprato il gioco. Attorno a lui vigeva un'aura bluastra, maligna, che mi invitava a combattere. Mi avvicinai con lentezza, rabbrividendo nella realtà. La bancarella non aveva nient'altro che teste esposte. Tantissime teste, un'infinità! L'uomo non aveva pupille e rideva perdendo bava verdastra, senza accorgersi di quanto sangue colasse a terra inzuppandogli i piedi. Sentivo la puzza di morte, anche davanti al pc.
E poi il gioco mi spense la mente e cominciò a giocare con me.
Non ricordo molto di quello che accadde. Né all'interno del gioco né all'interno della realtà.
Uccisi il venditore, gli tagliai la testa e con le mani sporche del suo sangue rimisi il gioco nella custodia, lasciando che quel liquido rosso si seccasse su di essa.
Il giorno dopo ero nel vicolo e vendevo la copia del gioco abusivamente, così ... a 93 centesimi ...

Fui io a raccontare quella storia, dopo che la ragazza con l'eterocromia si era riposizionata sulla poltrona. Mi era parso che fino a quel momento ognuno di essi avesse raccontato una storia vera, esponendo poi una parte di sé alla visione dell'altro. L'uomo dalla cicatrice blu aveva bevuto il sangue di quell'essere superiore e buono? La ragazza aveva sequestrato una giovane per soldi? Cos'era stato quel tic che le aveva fatto schioccare il collo? E poi c'entrava con la sua stranissima eterocromia?
Raccontai quella storia perché non volevo parlare delle mie cicatrici sulla schiena (#24 Paure dell'uomo: Bestia), cercando però di tenere alto il livello di tensione. Eravamo lì per una ragione, eravamo lì per regalare il vero orrore al mondo. Quelle persone mi spaventavano, dunque cercavo di non espormi troppo sebbene volessi far parte attivamente del gruppo. E poi, a dirla tutta, le mie mani sembravano ancora sporche del sangue di quel venditore abusivo, quindi perché non parlarne?

giovedì 18 maggio 2017

#1 Horror Club: i veri peccati

La tv era accesa e il suo formicolio crepitante rischiarava lievemente il buio della stanza. Stringevo tra le dita un bicchiere di scotch e fissavo sul tavolinetto una bottiglia di plastica con del liquido blu.
Nella vita ci focalizziamo sulle nostre azioni, come nessun'altra specie animale. Pensiamo a cosa vogliamo fare, a cosa dobbiamo fare, a cosa desideriamo assolutamente fare. In tutto questo ci lasciamo limitare da quelli che consideriamo peccati, quelle azioni che non andrebbero commesse poiché malvagie o punibili dalla legge. C'è chi se ne frega e persiste, e c'è chi si ferma e desiste. Ma quali sono questi peccati? Quali sono i veri peccati? Uccidere? Rubare? Stuprare? Quali sono i peggiori? Quali sono i veri?
In quel bosco, quella mattina, avevamo trovato qualcosa che nessuno mai si sarebbe aspettato di vedere. In quella passeggiata nella natura avevamo sentito all'improvviso un pianto di un bambino, un pianto strano, innocente, distorto. Un vagito soave, un vagito tonante. Così ci eravamo fermati, avevamo teso le orecchie e avevamo frugato tra i cespugli. Un bambino. Piccolissimo. Candido. Con due piccole protuberanze di carne sulle scapole. Lì per lì, pensammo fosse tutto uno scherzo, magari un prank organizzato da qualche canale youtube. Ci guardammo intorno, ma non c'era nessuno. Cos'era un angelo? Un incrocio tra l'uomo e un uccello? Il risultato di qualche esperimento? Un messia? Se ce lo fossimo tenuto, quante persone ci avrebbero creduto? Quante tv avrebbero voluto specularci sopra? La verità è che nel mondo ogni tanto appare qualcosa di buono, ma questo posto marcio non è mai pronto per accoglierlo.
Prendemmo i coltelli, quelli che avevamo portato per abbattere i rami che ci avrebbero ostacolato il cammino, e senza pensarci due volte recidemmo le piccole protuberanze del bambino. Nessuno di noi si aspettava che cominciasse a sgorgare sangue blu. Nessuno di noi si aspettava che l'urlo agghiacciante del pargolo cominciasse ad incendiare gli alberi vicino. Ci spaventammo, le protuberanze erano vere. Il bambino strillava dolore infuocato.
Gli piantammo un coltello nel petto. Per zittirlo. Per metterlo a tacere. Per non rischiare che il suo pianto uccidesse noi e distruggesse tutto. Con prontezza usammo le nostre bottiglie d'acqua per raccogliere tutto il sangue possibile, poi gettammo il corpo nel fuoco. Una fiamma blu si alzò nel cielo e il cadavere minuto si polverizzò all'istante. Non era umano. Forse neanche divino o demonico. Era qualcosa di oltre. Qualcosa di buono. Qualcosa di inspiegabile.
Tornammo a casa, ognuno con la sua porzione di sangue blu.
Sul tavolo c'era la mia. Cosa ne dovevamo fare? Venderla? Farla analizzare? Le leggende hanno migliaia di possibilità riguardo l'utilizzo del sangue, per cui io pensai ad una di questa. E senza capire la grandezza del mio peccato, bevvi il sangue blu...

Quando finì di raccontare la sua storia, il primo scrittore nero poggiò di nuovo la candela sul tavolo, andandosi poi a sedere su una poltrona libera. Noi tremavamo guardandolo, la sua cicatrice blu sulla guancia brillava iridescente...

mercoledì 17 maggio 2017

#0 Horror Club: i cinque scrittori neri

IL MONDO HA BISOGNO DI HORROR.
Questo era il messaggio che ognuno di noi aveva trovato nella homepage di quello strano sito web. Ci ero incappato per caso, un sito apparso dal nulla, una pubblicità qualunque apertasi da un website di film horror in streaming. Non avevo chiuso subito la finestra e avevo letto il messaggio, lasciandomi ammaliare dalla grafica spettrale. Alberi in nero, illuminati da flash di fulmini, foglie che volavano via come pipistrelli screziati, rumore di pioggia, caratteri rossi insanguinati.
TU SEI L'ULTIMO DELLA CERCHIA.
TU SEI STATO SCELTO PER 
L'HORROR CLUB.
Poi mi era arrivata di colpo una email, una email ancor più bizzarra del sito stesso, sebbene quest'ultimo ne fosse il mittente. Ancora mi chiedo come sia stato possibile riuscire ad entrare in possesso della mia casella postale elettronica.
Mi avevano dato un indirizzo ed un orario. Mi avevano ripetuto che il mondo aveva bisogno di Horror. Mi avevano detto che saremmo stati in otto. Otto persone, otto narratori, otto scrittori in grado di regalare al mondo la paura, lo spavento, il terrore. Aggiunsi ai quesiti irrisolti il come sapessero che io fossi uno scrittore di horror, in fondo non penso che tutte le persone che guardano quel genere di film siano anche autori del suddetto.
La situazione mi aveva inquietato ed affascinato allo stesso tempo. Escludendo la possibilità che fosse semplicemente un tentativo di hacking, non c'era nulla di male a dare un'occhiata a quell'appuntamento. Così ci andai.
Non era molto distante da casa mia, per cui a piedi raggiunsi il posto. Era una vecchia casa in disuso, con il cartello di vendita ammuffito e caduto sul giardino di erbacce. Sembrava pericolante anche, oltre che infestata. Mi guardai intorno prima di entrare, per vedere se ci fosse qualcuno in arrivo o se ci fosse qualcosa di strano. Nulla. Gente che passeggiava in un tiepido pomeriggio.
L'interno della casa era buio e impolverato, un odore stantio si spandeva praticamente dappertutto sottolineando l'assenza umana con grosse e grigie ragnatele.
"C'è nessuno?", dissi, sperando di ottenere qualche tipo di risposta.
"Accomodati", replicarono. Voci atone provenienti da una porta lungo il corridoio.
Avanzai, impaurito ed eccitato allo stesso tempo, afferrai il pomello d'ottone ed entrai in quello che doveva essere il soggiorno. La stanza era buia, rischiarata dalla fiammella di una singola candela. Le finestre erano state inchiodate con assi di legno e la mobilia coperta da teloni bianchi. C'erano quattro persone oltre a me. Tre sedute ed una in piedi. Riuscivo a scorgere a malapena i tratti dei loro volti.
Mi accomodai. Nessuno parlava, per cui mi sedetti e gettai un occhio in giro. Non c'era nulla da vedere, a parte l'oscurità, le quattro losche figure e l'atmosfera macabra.
"Siamo qui. Noi cinque soltanto. Non saremo otto. L'Horror Club sarà composto soltanto da noi. Il mondo ha bisogno di horror e noi saremo coloro che glielo fornirà", annunciò quello in piedi, girando attorno a noi, per poi fermarsi e raggiungere il tavolo con la candela.
L'afferrò, la sollevò e l'avvicinò al viso, mostrando un volto adulto con una cicatrice sulla guancia sinistra, una cicatrice bluastra. I suoi occhi neri erano profondi, i capelli in disordine.
"Qui... noi racconteremo le storie più spaventose che siano mai state raccontate...".
E così che nacque il famigerato e ricercatissimo Horror Club, il club dei cinque scrittori neri, dei cinque assassini con la penna...
Dovevamo raccontare storie, dovevamo regalare l'orrore. Noi eravamo i narratori oscuri, coloro che promulgavano le paure. Non ci volle molto prima che la situazione ci sfuggisse di mano, prima che acquistassimo un potere ultraterreno, prima che cominciassimo a realizzare realtà immonde per la gente...

martedì 16 maggio 2017

#30 Paure dell'uomo: alluce del piede

Rientrato a casa dalla scuola, ricordo che mi facevano malissimo i piedi. Un dolore atroce, allucinante, manco avessi trascorso le sei ore scolastiche senza sedermi.
Mia madre ancora doveva rientrare da lavoro e mio padre sarebbe rincasato direttamente per l'ora di cena. Per cui andai in bagno, calciai via le scarpe e i calzini e mi sedetti sulla tazza. Mi sentivo sfinito, afflosciato, e quel giorno non avevamo nemmeno fatto educazione fisica.
Stavo proprio per alzarmi in piedi, dopo aver terminato il mio bisogno, che notai una piccola macchia nera sul bordo di un'unghia. Si trattava dell'alluce del piede sinistro, dove avevo un'unghia non troppo lunga. Inizialmente pensai che fosse dello sporco ma poi mi accorsi che avevo indossato calzini azzurri, e la macchia era nera.
Non ci badai più di tanto comunque, infatti uscii dal bagno portandomi dietro il tagliaunghie per liberarmi del misfatto. Mi accomodai sul divano, tirai su il piede e lo poggiai sull'altra gamba. Cercai di togliere con le dita lo sporco, ma non veniva via. Era come inchiostro, come se la mia unghia fosse pitturata dal basso.
Non ti tagliare le unghie troppo sotto che poi ti fanno male le dita!
Mia madre lo diceva sempre e puntualmente tagliavo le unghie molto poco per non rischiare. Quella volta però dovevo tagliare un po' più sopra, altrimenti non avrei eliminato tutto lo sporco. Arrivai alla giusta altezza con le lame e strinsi. L'unghia fu tagliata e cadde a terra. Problema risolto. Ne restava solo un po', sporgente da un piccolo frammento irregolare di unghia. L'afferrai con due dita e tirai. Mi si staccò il dito del piede.
Sì, proprio così. Mi si staccò il dito. Cadde via, come se fosse stato incastrato alla giuntura e non unito. Come un pezzo di lego viene separato dall'altro, il mio dito venne via. Lo vidi ruzzolare a terra con un rumore flaccido, senza sporcare. Non usciva sangue, non sentivo dolore. Mi si era staccato il dito, tanto che riuscivo a vederne i filamenti bianchi dei tendini e quelli violacei delle vene, oltre che la cartilagine e l'osso, ma non usciva sangue. Il dito caduto in terra sembrava tutt'altro che cadaverico o in cancrena. Si era semplicemente staccato.
Urlai dallo spavento, e maledissi me stesso per non essermi tenuto quella macchia sotto l'unghia. Cosa mi era saltato in mente? Cosa avevo intenzione di fare? Mia madre mi avrebbe ucciso! Mi ero staccato il dito del piede! Non mi avrebbe mai perdonato per aver fatto una cosa simile! Ma poi ... come era stato possibile? Come glielo avrei giustificato? Come glielo avrei spiegato? Cosa avrei detto alle persone e a tutti? Ho perso il dito? Si è staccato mentre lo pulivo! Chi mi avrebbe mai creduto?
Cominciai a respirare a fatica, venendo colpito da forti palpitazioni e da una tremenda tachicardia. Mi sentivo morire. Sudavo freddo. Sudavo caldo. Avevo i capogiri. Cosa dovevo fare? Chiamare mamma? Chiamare un'ambulanza? Prendere il dito da terra e riattaccarlo?
Lo guardavo a terra spaventatissimo, come se fosse un occhio dalla sclera rossa e la pupilla bianca. Sembrava osservarmi, scrutarmi, giudicarmi. Sembrava essere la prova dei miei errori. Quando quella volta ho trasgredito, quando quell'altra volta ho esagerato, quando quell'unica volta ho reagito male. Queste cose erano racchiuse in quel dito, in quella macchia nera che si era divisa da me.
Bussarono all'improvviso alla porta ed io, per la paura, svenni sul colpo.
Quando mi risvegliai, mia madre era in cucina ed io ero sul divano. Avevo ancora il dito attaccato al piede, ma sull'unghia c'era la macchia nera...

mercoledì 3 maggio 2017

#22 Paure dell'uomo: segreti

Abbiamo tutti dei segreti. Ognuno di noi, nessuno escluso. Possiamo far finta di ignorarli, possiamo non dargli peso accantonandoli tra i vecchi ricordi, possiamo addirittura disprezzarli. L'unica cosa che non possiamo assolutamente fare è dimenticarli.
Sono uno sfasciacarrozze. Per guadagnarmi da vivere, io faccio a pezzi le auto, i camion, le moto, i frigoriferi e tanti altri tipi di ferraglia e rottami. Ho dei macchinari possenti, distruttivi, che ho pagato tantissimi soldi, i quali soddisfano il desiderio dei miei clienti di distruggere i loro vecchi possedimenti. C'è un certo gusto nel fare questo mestiere quando si possiede un'azienda propria. La fondai io, ereditando il terreno su cui allestire il tutto da un mio vecchio zio malato. Avevo messo da parte delle finanze per comprare una casetta, ma essendo scapolo decisi di investirli nella mia attività. La migliore scelta della mia vita. Anche se a volte ho dei rimpianti, è soltanto uno il segreto che porto con me.
La macchina arrivò alle due di notte, ed io ero ancora nell'ufficio della mia azienda sommerso da alcune scartoffie che dovevo compilare entro l'indomani. La vidi al chiaro di luna, mentre veniva parcheggiata nello spiazzale sterrato del mio ingresso. Vi scese un uomo alto, robusto, dal volto scuro, il quale posò una lettera sul cofano ed andò via a piedi, inoltrandosi nella notte. Mi parve stranissimo come avvenimento, per cui mi alzai in piedi e andai a controllare.
Il biglietto era in realtà una busta per le lettere, e la busta per le lettere conteneva cinquemila dollari. Lì per lì non capii cosa stava succedendo. Un auto abbandonata nel cuore della notte. Soldi. Anonimato. C'era qualcosa che non andava, qualcosa di losco.
Guardai in auto e non vidi nulla, per cui mi diressi ad aprire il portabagagli. C'era un uomo. Stordito, nudo ed imbavagliato, il quale faceva una fatica tremenda nel respirare. Era debole, per cui gli tolsi il fazzoletto dalle labbra. Lui mi fissò incredulo e mi implorò di non ucciderlo.
"Ucciderti? Sono lo sfasciacarrozze, perché dovrei ucciderti?".
"Quegli uomini mi hanno preso, sapevano dei soldi, e sapevano che non glieli avrei mai dati. Mi avranno portato qui per una ragione. Chiama la polizia e controlla se sotto al motore c'è ancora il pacco".
Lo fissai incredulo, spaventato. Mi trovavo in una situazione impensabile e stentavo addirittura a crederci. Ma cosa stava succedendo?
Non lo liberai comunque, non mi fidavo ancora. In fin dei conti poteva essere anche un assassino lui stesso. Andai al lato anteriore dell'auto e sollevai il cofano. Facendo attenzione, infilai la mano sotto al motore e prelevai un ingombrante pacchetto di plastica. Erano centomila dollari. Centomila ... assurdi ... dollari ...
La situazione mi fu chiara. Quell'uomo aveva dei soldi, per un motivo non sicuramente legale. Altri uomini volevano impossessarsene, per cui lo avevano sequestrato. Tuttavia, visto che l'uomo non collaborava, avevano trovato il modo di ucciderlo senza esserne mai rintracciati, ovvero portarlo da me, in modo tale da toglierlo di mezzo e continuare la ricerca dei soldi senza intralci. Mi pagavano cinquemila dollari per ucciderlo.
Tornai sul lato posteriore e lo guardai. Mi pagavano cinquemila dollari. Nessuno però sapeva dei centomila che avevo trovato, visto che lui non aveva aperto bocca. Nessuno sarebbe venuto a chiedere di lui.
"Aiutami...", disse, tentando di alzarsi ed uscire dal portabagagli.
Lo spinsi in fondo e richiusi il portello. Pochi minuti dopo, sfasciai l'auto con il mio segreto dentro...

mercoledì 26 aprile 2017

#19 Paure dell'uomo: il fantasma della cantina

Dopo la morte di mio padre, nessuno della nostra famiglia mise più piede giù in cantina. Mio padre era quello che riparava tutto in casa, quello che pitturava, quello che si occupava di tutte le manutenzioni. Conservava tutti i suoi attrezzi in cantina, di conseguenza era un luogo che raramente qualcun altro visitava. Una volta che l'infarto lo stroncò nel sonno senza una ragione plausibile, la cantina divenne semplicemente una porta che nessuno voleva aprire. Se c'erano delle riparazioni da fare, io, mia madre e mio fratello maggiore chiamavamo gli esperti del settore.
Un giorno però, trovatomi da solo a casa dopo la scuola, sentii un forte rumore provenire dal pavimento, come se qualcosa fosse caduto provocando un grosso tonfo. Pensai a qualche topo o a qualche altro animale che bazzicando la cantina aveva fatto cadere un oggetto, per cui decisi di andare a dare un'occhiata. Aprii la porta con cautela, venendo sopraffatto da una purulenta zaffata di aria stantia, che quasi mi fece lacrimare gli occhi. Non facevamo arieggiare quel posto da secoli.
Accesi la luce e pian piano cominciai a scendere i cigolanti gradini di legno. Lì per lì mi pietrificai, e quasi mi misi a urlare pensando che fosse un ladro, ma poi quell'ombra in fondo alla stanza mi disse di stare calmo. Afferrai la prima cosa che mi capitò a tiro, una chiave inglese, e gli intimai di non muoversi e di dirmi cosa ci faceva lì.
"Sono un fantasma, caro mio. Sono morto più di ottanta anni fa, non potresti farmi del male neanche se ci provassi. Stai calmo, va tutto bene".
Lo fissai inorridito, mentre faceva dei piccoli passi verso di me. Eppure quelli non erano passi, non aveva i piedi. Svolazzava. Il suo mezzo busto superiore finiva all'altezza della cintola, poi c'era il vuoto. Stranamente non mi sentivo più tanto spaventato, l'idea che fosse un fantasma e non un ladro, mi aveva acquietato in un certo senso.
"Co... co... cosa ci... fai qui?".
"Mi suicidai parecchi anni fa, per solitudine. La mia grande nemica vinse ed io mi impiccai qui sotto. Sono qui alla ricerca eterna dell'amicizia e dell'amore, le due nemiche acerrime della mia carnefice".
"Mmm... mmm... ma hai mai... incon... trato... altre persone?".
"Certo! Come no! In questi tantissimi anni, ho incontrato tantissime persone!".
"Ness... uno... ti ha ai... ai... aiutato a trovare pace?".
"Soltanto uno, ma non ha funzionato".
Lo fissai spaventato, il suo volto era triste. Un uomo sulla quarantina, calvo, dal colore cinereo e trasparente, degli occhi roventi e accesi. Fluttuava e mi guardava con serenità e tristezza.
"Siediti", mi disse. "Voglio raccontarti la storia di chi mi ha aiutato, la storia dell'uomo a cui ho fermato il cuore per potergli permettere di essermi amico per sempre".
Dietro di lui, in fondo alla stanza, intravidi il profilo di mio padre...

giovedì 20 aprile 2017

#15 Paure dell'uomo: ratti

Jane sentiva il rumore attraverso le pareti, li sentiva arrivare. Era uno zampettare sommesso, indistinto, implacabile. Percorreva tutte le mura e si chiudeva intorno a lei provenendo da tutte le direzioni, come se la stessero accerchiando. Loro erano lì, loro potevano prenderla, loro potevano aspettare all'infinito il momento giusto in cui ucciderla. Doveva solo distrarsi, addormentarsi, voltarsi, e loro avrebbero attaccato. Lei lo sapeva.
Le cose non erano sempre state così, decisamente no. Lo erano diventate dopo la tragica morte di una sua coinquilina. Era successo due settimane prima, all'improvviso. Tutti gli occupanti della casa erano in cucina, ognuno impegnato in qualcosa. Chi nel chattare, chi nel leggere, chi nel fumare, chi nel parlare al telefono. Tutti erano lì e tutti erano altrove con la mente. La sua coinquilina si era alzata in piedi per raggiungere il frigorifero e ad aveva inaspettatamente urlato: "un ratto!", prima di scivolare e sbattere la testa sul pavimento. L'avevano portata di corsa all'ospedale, ma per lei non c'era stata nessuna via di salvezza. La botta era stata fortissima, il trauma irreparabile. Nessuno aveva però visto il topo, oltre a lei, neanche coloro che erano poi rimasti a casa quel giorno. Nessuno vide mai quel ratto, ma quella sua comparsa era costata loro l'amica e la serenità. Un velo di tristezza si era abbassato su tutti da quel giorno, un velo che aveva colto maggiormente Jane, la quale credeva nell'esistenza del topo a differenza degli altri.
Oltre alla tristezza, tutti quanti loro avevano cominciato a manifestare dei strani sentimenti e delle strane reazioni verso la morte dell'amica. Dicevano ch'era colpa sua, che se l'era cercata per il suo essere visionaria. Vedeva i mostri. Vedeva i fantasmi. Era una stupida che è morta per un topo. Più gli altri dicevano cattiverie e trasformavano la tristezza in odio verso la defunta, più Jane cominciava ad avvertire che il topo esisteva davvero. Non era solo. Lei poteva sentirlo. Erano tanti. Tantissimi. Si nutrivano di quell'odio. Di quel cattivo sentimento, nato senza motivo, senza ragione. I ratti erano lì, bramavano tutti quanti. Più disprezzavano, più ardevano le brame.
Dopo due settimane Jane li sentiva ovunque. Nel soffitto, nelle pareti, sotto il letto, nei vestiti. Poteva sentire l'odore immondo, l'odore di fogna, di immondizia, di morte. Crepitavano attraverso ogni cosa, respiravano flebilmente, le loro code provocavano fruscii. Aveva paura di uscire dalla sua stanza, di chiudere gli occhi, di dormire, di chiamare aiuto, di chiedere agli altri se anche loro li sentivano. Cosa stava succedendo? Perché poi?
Jane fu ritrovata suicida nel suo letto alcuni giorni dopo. Tuttavia nessuno mai vide neanche l'ombra di un ratto in quella casa, sebbene dall'autopsia furono ritrovati dei piccoli morsi da roditore sulle sue dita dei piedi.

lunedì 17 aprile 2017

#1 Racconti in rosa: autobus

Ho provato tantissimi tipi di amore nella mia vita, tanti quanti ne conosce l'uomo, eppure ho sempre covato la sensazione che in questa esistenza nessuno di noi abbia mai davvero amato. Appuntamenti, serate brave, relazioni serie e durature, infatuazioni, tarli sessuali, sfruttamenti, delusioni, abbandoni, rimandi. Tutto. Tutto di tutto. Nessuno in questo tutto di tutto è mai riuscito a provare un sentimento vero, puro, unico, decisivo, assoluto.
Era un periodo strano della mia vita. Vivevo di solo lavoro e le uniche compagnie che avevo al di là dei colleghi erano quei pochi coinquilini con cui avevo stretto amicizia nella grande casa in comune in cui vivevo. Mi svegliavo alle quattro del mattino e viaggiavo per circa un'ora per raggiungere il posto di lavoro, dove restavo fino alle quattro del pomeriggio prima di effettuare il medesimo viaggio di ritorno. Viaggiavo in pullman da mesi sempre con gli stessi turni di lavoro, vedendo sempre la stessa gente salire e sempre la stessa gente scendere. Nessuno di interessante, nessuno di memorabile, nessuno con cui stringere amicizia o scambiare due chiacchiere.
Ricordo che una bella mattina mi fu chiesto di recarmi a lavoro più tardi, poiché con l'assenza di uno dei miei colleghi, serviva che io chiudessi il negozio. Sarei dovuto scendere di casa alle sette del mattino e giungere a lavoro alle otto e mezza circa. Mai successo, nessun precedente. Il giorno inoltre era calmo e sereno, con un sole tiepido che invogliava il buon inizio di giornata.
Fu durante quel viaggio d'andata che la vidi. Lei era lì ad una fermata di passaggio, vestita con una gonnellina nera ed una maglietta rosa, aspettando un pullman che non era quello su cui viaggiavo. I capelli lunghi neri, gli occhi scuri, la carnagione mulatta. Una borsa molto piccola e nera che le scendeva lungo il fianco formoso, a pochi centimetri da una pancia piatta sovrastata da un seno appena visibile. Lunghe gambe affusolate senza calze che finivano in un paio di scarpe da ginnastica immacolate.
Mi salirono delle palpitazioni incredibili quando la vidi, non potevo crederci. Era stupenda, fantastica, di una bellezza disumana. Quasi non riuscivo a guardarla, che un tremendo imbarazzo mi coglieva e mi assaltava. Chi era? Dove era diretta? Sarebbe entrata mai nella mia vita? L'averi mai conosciuta davvero? L'avrei mai baciata? Avrei mai assaporato il suo odore?
La vita è fatta di occasioni e la bravura dell'uomo risiede nella prontezza del coglierle. Fui tentato di scendere alla fermata dove lei attendeva. Ma cosa avrei detto? Cosa avrei fatto? Da dove avrei dovuto cominciare?
Non sapevo rispondermi e così non mi alzai dal posto.
Non scesi a quella fermata, e lei non salì. Così com'era apparsa, così scomparve, come se niente fosse mai accaduto. Io però so per certo che quella fu la volta in cui mi avvicinai di più a quello che è il vero amore.

domenica 16 aprile 2017

#13 Paure dell'uomo: coniglietto pasquale

"Il gioco è molto semplice bambini!", spiegò l'uomo vestito da coniglietto pasquale sotto quel caldissimo sole d'Aprile. "Tutti voi andrete dietro quella siepe e chiuderete gli occhi, io seppellirò quattro ovetti colorati e poi farò un fischio. Quando voi mi sentirete fischiare, salterete fuori e comincerete a cercare le uova. I quattro bambini che troveranno gli ovetti, avranno uno spleeeeeeeendido regalo!".
Tutti i bambini annuirono, fissando la grossa figura di coniglio bianco che avevano davanti, e andarono a nascondersi.
Noi genitori eravamo in casa, intenti a consumare un fantastico aperitivo/buffet. L'idea di organizzare una festicciola di Pasqua tra tutte le famiglie del quartiere era partita dal nostro rappresentante comunale, il quale aveva pubblicato su internet un annuncio per cercare un animatore con esperienze di questo genere. Aveva risposto un uomo di trent'anni, pelato, pallido e solare, i cui occhi azzurri riuscivano a trasmetterti serenità e a farti sentire a tuo agio. Aveva detto che faceva questo mestiere da anni, e che aveva cominciato nel ramo dell'animazione da spiaggia. Aveva poi fatto teatro, e alla fine era entrato in una grande agenzia di animazione che spaziava in più categorie. Ora erano due anni che lavorava in proprio, ma aveva un grande giro di clienti.
All'esterno della villa riuscivamo a sentire la musica cauta e dolce dello stereo, il fischiettare del giovane e le urla entusiaste dei bambini. Potevamo goderci i nostri drink, potevamo sgranocchiare in santa pace le nostre patatine e mini-quiche. C'era una tranquillità beata, pacata, meritata. Non potevamo aspettarci una Pasqua migliore.
Il prezzo che l'uomo ci aveva chiesto era stato veramente misero, tant'è che per semplice magnanimità d'animo avevamo acconsentito a dargli più di quanto chiedeva, considerando che il meteo prediva un sole intenso e caldo. Stare per quasi quattro ore in un costume da coniglio sotto al sole, sarebbe stata una sofferenza grossa. 
Il travestimento in sé però era alquanto scialbo e brutto. Semplicissimo. Bianco e rosa, con grandi orecchie e grandi zampone. Da un professionista ci si poteva aspettare di meglio.
Stavamo proprio brindando alla salute di tutti noi e alla bellezza di quello splendido giorno, quando la musica s'interruppe all'esterno della casa ed un silenzio tombale cadde su ogni cosa, facendoci rabbrividire. Anche l'uomo aveva finito di fischiettare. Ci guardammo inorriditi, gli occhi sgranati. Cos'era successo? Un calo di corrente? Un corto circuito? Possibile che il silenzio potesse manifestarsi così repentinamente.
Allarmati corremmo all'esterno, cercando di capire cosa fosse appena accaduto. L'uomo ci salutò, vanga alla mano e sporco di terra. Uno alla volta aveva seppellito vivi tutti i bambini...

giovedì 13 aprile 2017

#12 Paure dell'uomo: Diavolo ambulante

Il Diavolo, affannato, appoggiò il grosso telone a terra, a ridosso del marciapiede. Trasportare sessanta chili in spalla, esattamente come Babbo Natale, non è un'impresa facile né agevole. Si asciugò il sudore, si accese una sigaretta e si sedette a terra, usando il sacco come schienale. Oggi aveva tantissimi oggetti, tantissime cose da vendere, molte di grande valore, altre di semplice rarità e curiosità. Avrebbe attirato molta attenzione, e se tutto fosse andato per il meglio sarebbe riuscito a piazzare più di tre o quattro cose.
L'assurda diceria che gli uomini vendono l'anima al Diavolo in cambio di fama, potere e soldi, è una sciocca storiella di cui non si è mai scoperta la fonte. Non è mai stato il Diavolo a comprare le anime dalle persone, sono le persone che comprano il male dal diavolo. Nella cosiddetta battaglia tra il bene e il male, l'Astro del Mattino non è nemmeno convinto che il bene esista, visto che l'uomo pratica il male senza che egli gli venda nulla. Se cerca di dare un po' di sé alle persone è soltanto per accaparrarsi seguaci che potrebbero rivelarsi utili allo scoccare della guerra, una guerra che logicamente potrebbe non verificarsi mai. Il Diavolo è un poveraccio, ambulante, venditore d'occasione, il quale cerca di piazzare frammenti della sua anima alla gente che non ha bisogno di incoraggiamenti per far soffrire gli altri, così da poterne ricavare forza e sostentamento. Il Diavolo cerca di succhiare il male dalla gente per sopravvivere, per sostentarsi, per poter ancora esistere.
Gli occhi rossastri, la bombetta, il vestito elegante, lo sbuffo di fumo che puzza di zolfo. Cosa ha fatto il Diavolo per essere tale? Ha semplicemente capito in cosa consiste la malignità. Gli uomini cattivi non sono esattamente consapevoli della propria cattiveria. In questo specifico caso, gli uomini consapevoli non sono altro che demoni.
Aprì il telo una volta finita la sigaretta, lo dispose e posizionò alla bene e meglio tutto il suo materiale. Frullatori, set da cucina, giocattoli, libri, ferri da stiro, vestiti. Ogni cosa aveva una scheggia del suo cuore nero ed un frammento della sua anima infuocata. Nessun uomo buono sarebbe stato attirato da quegli oggetti, il richiamo risuonava soltanto con il male, a cui si sarebbe poi attaccato come una sanguisuga.
"Eccoci qui! A me gli occhi! Chi desidera oggetti di valore così malignamente scontati?".
E tu? Senti il richiamo? O hai già comprato qualcosa?