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sabato 21 dicembre 2019

#1 Depression: un nobel a doppia faccia


Una medaglia ha sempre due facce, ma entrambe hanno la stessa forma e condividono lo stesso spessore e materiale.
Una clessidra ha sempre due lati, ma il loro volume è il medesimo come anche il tempo che occorre alla sabbia per viaggiare da una parte all'altra.
Anche un essere umano è diviso in due metà, una visibile a tutti e l’altra celata, ma il corpo che le ospita, il cuore che le sorregge e il cervello che le comanda a volte non riescono a distinguerle.
Quella serata si basò proprio su questa legge universale, scindendosi in due momenti distinti e separati il cui perno di giunzione fu il Dottor Sterling, il cui segreto era sconosciuto pressoché a tutti.
Quel 10 dicembre sera la sala Konserthuset era così gremita che i respiri di tutti i presenti erano in grado di viziare l’aria anche con le finestre aperte e, nonostante non facesse poi chissà che caldo primaverile all'esterno, l’ambiente era tiepido e accogliente, seppur devastato dai costanti e fastidiosi bisbigli della folla. Tutte le poltrone rosse erano occupate, tutta la gente indossava smoking, maestosità e cultura. I tappeti porpora con arabeschi dorati erano di una bellezza inaudita, proprio come quei quadri settecenteschi che abbellivano il salone, coprendo piccoli sprazzi della carta da parati floreale su base bordeaux. Un grosso lampadario di cristallo irrorava luce e lucentezza su tutti gli animi e il palco di legno scuro, il cui sipario era già aperto, sosteneva un leggio del medesimo colore mogano e un microfono silente illuminato da una decina di faretti.
Si trattava della premiazione e assegnazione dei premi Nobel del 2019 e Tim Sterling doveva ricevere la sua consacrazione definitiva, ritirando la propria targhetta per la sezione di medicina. Alcuni mesi prima aveva finalmente diagnosticato la depressione come patologia non solo psichiatrica, ovvero un comune disturbo dell’umore, bensì anche fisico-neurologica iniziando poi uno studio ben finanziato per ricercare una cura efficace per debellarla, che fosse chirurgico-invasiva o meno. Era riuscito a trovare più di duecento soggetti, la cui forma depressiva acuta mostrava segni tangibili all'interno del tessuto cerebrale, ma in alcuni casi, oltre ai sintomi ormai ufficializzati dai manuali diagnostici per la comparte psicologica e dal medico per quelli fisici, era possibile notare altri campanelli d'allarme nell’organismo in grado di diagnosticare al 100% la presenza della depressione. 
Non era un virus, non era un’infezione, non era un cancro e non era batterica. Non c’era tuttavia un vero e proprio modo per definire quella tipologia di malattia a cavallo tra la psicosi, il malessere psicosomatico e l’alterazione del funzionamento degli organi. Ma i sintomi esistevano, non era tutto frutto di una mente traumatizzata o di una personalità deviata, una bassa autostima o un umore settato verso il basso. Si trattava di sintomi fisici reali e con essi c’erano le reazioni alla patologia, di conseguenza doveva esserci per forza di cose anche una cura, cosa su cui il medico stava appunto lavorando con quei finanziamenti. Anche perché se si fosse rivelata essere inguaribile e quindi latentemente terminale, più 350 milioni di abitanti nel mondo avrebbero corso un gran bel rischio.
Quando alle 21 chiamarono il suo nome per invitarlo sul palco a ritirare la targa, cosa più importante per lui in quel momento buio della sua carriera da neurochirurgo, dopo aver perso una decina di pazienti consecutivi nel 2018, gli tremavano le mani dall’emozione. Era sbalordito, felice e insicuro e le sue dita frenetiche non desideravano altro che infilarsi nelle tasche per prelevare la fiaschetta di tequila segreta e il suo pacchetto di sigarette alla menta, le sue uniche debolezze umane, che tra l’altro un medico che si rispetti non dovrebbe neanche lontanamente avere.
Salì i gradini di legno che non scricchiolarono sotto la sua mole esile ed emaciata, simbolo emblematico di un uomo che non aveva mai fatto un giorno di palestra in vita propria, ma che possedeva un metabolismo così accelerato da farlo apparire magro anche a 40 anni e con la pancetta da beone. Avanzò nei suoi pantaloni beige a sigaretta, lasciando che i suoi mocassini neri si godessero il luccichio dei faretti che si specchiavano. Gli diedero un’auricolare con microfono prima di qualsiasi altra cosa, in modo tale che potesse ricevere istantaneamente la traduzione di ciò che si sarebbe detto, fornendo ovviamente anche a loro la possibilità di tradurlo per l’uditorio. Protese la mano per stringere quella dell’uomo baffuto e stempiato che reggeva la targhetta e poi venne detto qualcosa in svedese e lui sorrise sentendo la voce suadente di una donna ripetergli la frase in italiano.

“Non so come abbia fatto a non ridere in quel momento o comunque a non provarci con la dolce vocina che mi sussurrava cose mediche all’orecchio”, dichiarò Sterling in una botta di ilarità, sbattendo il bicchiere di scotch vuoto sul bancone di legno, mentre l’uomo al suo fianco lo imitava lasciandosi cogliere da un accesso di risa esorbitante.
“Ero in terza fila, ma non sono riuscito a vederti bene. Avrai avuto la faccia di uno che sta per scoppiare!”, aggiunse il suo compagno di bevute momentaneo, un certo scrittore di altri tempi che non aveva vinto alcun premio quella sera ma che era da considerare un ospite fisso ad ogni premiazione. Aveva grossomodo la sua età, ma sembrava ridere per le cose più stupide mai viste o forse erano tutti quei bicchierini vuoti che avevano davanti a rendere felice l’aria del bar post-nobel.
Il locale era gremito, come lo era stato il salone di un’oretta prima, solo che non si trattava della stessa tipologia di gente in smoking e latinismi, sebbene il locale fosse comunque un pub pittoresco e rinomato in fondo alla stessa via dove c’era la sede della premiazione a Stoccolma, ovvero a meno di 150 metri da uno dei palazzi più famosi della capitale svedese.
Da quell’evento, era possibile vedere unicamente loro due in quel bar, visto che tutti gli altri presenti, che ricoprivano tutte le panche e tutti gli sgabelli, erano semplici clienti abituali, a cui piaceva esibire un certo tenore di vita e di classe anche bevendo una pinta. Era un pub tradizionale, ma per la posizione in cui era ubicato era normale che anche il prezzo di una semplice birra fosse così vertiginoso. Tutto nella regola della realtà moderna.
“Tu hai mai vinto un Nobel per la letteratura, Larry?”, chiese il medico, facendo segno al barista di portare altri due drink, questa volta doppi. Aveva la mente annebbiata e desiderava tanto fumarsi una sigaretta, ma uscire al freddo non era una buona idea, se non si fosse riscaldato il cervello almeno un altro po’.
“No, ci sono andato vicino un paio di volte, credo. È la decima volta che vengo invitato alla premiazione, ma non penso di averlo mai davvero meritato finora. Quindi non mi danno per essere ancora a mani vuote”.
I bicchieri giunsero, brindarono senza alcuna parola e fecero un piccolo sorso ciascuno. Era il momento di godersi quella brodaglia invece che ingollarla, perché in fondo era giunto il momento di cominciare i discorsi seri e smetterla con quelle fittizie chiacchiere.
“E quindi vuoi scrivere un libro su di me, così da vincerne uno”, dichiarò di punto in bianco Sterling, strizzando gli occhi per l’eccessiva forza di quello scotch. Il barista aveva per caso cambiato bottiglia o annata? Quel veleno era migliorato dal nulla.
“Ho riso troppo alle tue battute scommetto, per questo mi hai pizzicato”.
“Touché”.
“Questa è l’idea comunque, anche se mi interessa più il percorso che ti ha condotto alla diagnosi piuttosto che la tua persona”.
“Vuoi semplicemente scoprire come ho fatto a diagnosticarla, allora? Puoi leggere la mia ricerca, è tutto spiegato lì”, asserì beffardo, non riuscendo a sorseggiare il drink e mandandolo giù di colpo, sbattendo di nuovo il bicchiere sul bancone senza però fare un altro ordine.
“Non credo che spulciare le cartelle di duecento pazienti, in cui in maniera medica fai analisi del sangue e delle feci, possa aiutarmi in qualche modo”, replicò lo scrittore, imitando il suo gesto e svuotando il contenitore di vetro.
“Sigaretta?”, domandò Tim alzandosi in piedi.
“Pensavo non me l’avresti chiesto mai”, rispose Larry imitandolo nuovamente.
“Vuoi la verità, dunque?”.
“Sì, perché so che c’è molto di più dietro tutta questa storia. Posso intuirlo”.
“Allora dovremo parlare per un bel po’ e dovrai pagare parecchio alcool, anche se dubito riesca a spiegarti le cose in una sola serata. È passata la mezzanotte”.
“Troveremo il modo per parlare anche in altre sedi e altri modi”.
“Prima che esca il libro, nessuno dovrà sapere ciò che ti dirò”.
“Si capisce, non getterei mai al vento un’occasione così, spifferando la mia idea al primo che passa e rendendo pubblico il segreto che me la farà sviluppare”.
“Okay, ma dovrai tenerti forte, perché sto per dirti due cose che ti lasceranno a bocca aperta”.
“Cioè?”.
“La diagnosi iniziale non è stata mia prima di tutto e poi è stata ultimata non su quei 200 pazienti della ricerca ufficiale, ma su altri 20 ignoti... quando ormai erano già defunti da parecchio tempo”.
E la porta del pub venne spalancata da una donna con un vestito magenta, permettendo a loro di uscire e al freddo di congelare quella rivelazione per sempre nella mente di Larry.

giovedì 19 dicembre 2019

#0 Depression: GoPro sull'autostrada

Sapeva che quella avrebbe potuto essere l'ultima sera della sua vita, eppure si sentiva tremendamente tranquillo. Quella donna era stata chiara alcuni giorni prima. 
Da oggi in poi indossa questa GoPro al collo e cerca di lasciarle campo libero giusto di fronte a te, aveva detto, consegnandogli la telecamera. Era un compito duro da portare a termine, se si considerava il fatto che la fine di esso fosse appunto la sua morte. Certa tra l'altro, non probabile. La sua assoluta e definitiva morte certa. Doveva indossare quella cosa fino a quell'esatto momento.
Quelli come te non sono soli, aveva aggiunto.
E non devono esserlo più, ma per poter riuscire in questo bisogna che alcuni si sacrifichino, come le cavie di qualsiasi medicina sperimentale o i primi a subire qualche nuova e innovativa procedura chirurgica.
Aveva pensato ai suoi figli, a sua moglie, a tutti i suoi amici e altri parenti. Molti di loro sarebbero potuti finire nella sua situazione, quindi perché non sfruttare il suo già esserci per cercare di salvarli?
Per questo aveva al collo quella telecamera e per questo camminava lungo il guardrail di pietra dell'autostrada, nonostante piovesse a dirotto. Il vento era infernale e lo frustava senza sosta con raffiche d'acqua e nevischio.
Aveva qualcosa nel cervello, ma quella donna aveva detto che c'era in realtà molto di più. Aveva qualcosa che gli straziava il cuore, che gli bastonava l'anima e che prendeva la sua personalità per il collo impiccandola ad ogni istante di vita, senza stancarsi mai.
Non sapeva cosa significasse tutto questo, ma sapeva cosa sarebbe potuto accadere.
I fari di un camion illuminarono il suo viso pallido. L'assenza di sonno aveva preso a pugni i suoi occhi. Tremava perché non aveva fame e le gocce gelide che gli si accumulavano sulla pelle scoperta non lo bagnavano per davvero. Era disidratato. Avrebbe tanto voluto buttar giù un goccetto. Così, tanto per ricordare l'inizio.
Il sapore del fuoco, la parvenza di benzina. Bere lo avrebbe salvato da quell'autostrada, fatta di pece nera e linea di mezzeria tratteggiata. Camminava nella direzione opposta al senso di marcia e si trovava a lato esterno della carreggiata. Finora non aveva ancora incontrato una piazzola di sosta e si era concentrato completamente sul tenere la GoPro fissa innanzi a sé. Nessuno lampeggiava i fari nella sua direzione, ma lui si sentiva accecato.
Nessuno suonava il clacson per segnalargli di stare attento e scendere da quel luogo non fatto per i pedoni, eppure lui era assordato da un rumore continuo.
Quella bottiglia.
Quel finestrino.
Quel vecchio disco graffiato.
Si fermò perché il fiato iniziò a mancargli.
Quando prese a fissare le auto instancabili, dall'altro lato della corsia c'era un bambino di una decina d'anni. Aveva una felpa scura con il cappuccio ben piantato in testa. Con un piede appoggiato sul triangolo di segnalazione per gli incidenti, provava ad allacciarsi le scarpe, ma non ci riusciva perché una delle sue braccia era storta all'indietro, spezzata in una maniera indicibile e così frantumata da sembrare essere uscita da un frullatore.
"Ehi, attento!", gridò con monito l'uomo.
Il ragazzo alzò il capo e lo guardò con un sorriso strano, poiché diviso a metà da un'ustione che gli aveva devastato mezza faccia.
Sapeva chi era, altrimenti quella donna non gli avrebbe ordinato di indossare la telecamera.
Pianse di getto, lasciando che quell'attacco di panico prendesse il sopravvento.
Poi attraversò l'autostrada senza guardare, ma almeno la GoPro tenne gli occhi aperti per tutto il tempo.

domenica 16 giugno 2019

#1 La croce nel giardino: non dovevi fare la spia

"Mettetevi in fila Pumpkin Class, sono le 12:45. Riprenderemo la correzione delle vostre risposte alle domande del testo, quando ritornerete su dopo pranzo", spiegò la professoressa, alzandosi in piedi e aprendo la porta della classe.
"Okay, Holly", rispose il gruppo di 30 ragazzini in coro, prima di chiudere i propri quaderni, alzarsi in piedi, mettersi uno dietro l'altro e uscire dalla classe alla volta della sala mensa.
L'Alexandra Primary School era una delle scuole elementari pubbliche più affollate dell'intero quartiere di Bounds Green. Anche con la presenza di un folto staff qualificato sia dal lato amministrativo e manutentivo sia da quello educativo e di sostegno, la gestione della vita scolastica quotidiana non era molto semplice, visto che su ben 18 classi in totale, le 3 con meno studenti contavano 30 testoline... ed erano quinte elementari. Si capisce che una mole di studenti così copiosa, con età che oscillavano tra 6 e 11 anni, rendeva un po' la vita di tutti abbastanza ardua da affrontare, pure per gli studenti stessi, che si ritrovavano a sentirsi soli come piccole acciughe in un banco composto da milioni di pesci.
Eric non era molto bravo a fare nuove amicizie, ma per quanto poteva fregargliene i 4 compagni che aveva gli bastavano e avanzavano. Erano diventati amici sin dal primo anno all'Alexandra e da quel momento in poi avevano sempre fatto quasi tutto insieme, più o meno.
Il suo gruppetto era composto da Raynis, ovvero il suo migliore amico, Leopold, il capo-bulletto della squadra, Adam, il braccio destro del boss, e Zacary, il ragazzo che tutta la scuola prendeva in giro perché grasso, ma che loro avevano accettato come parte del gruppo, anche se non denigravano di sottometterlo quando era in disaccordo con Leopold. A volte Eric si chiedeva se non fossero degli amici schifosi quando lo prendevano in giro, lo picchiavano o gli organizzavano scherzi, come se fossero anche loro degli spietati bulli con il proprio amico. Il capo gli rispondeva costantemente di no, perché tra amici questo accade sempre, glielo aveva detto suo fratello. In più loro lo proteggevano dagli altri bulli della scuola e lui in cambio doveva soltanto obbedire alle regole del gruppo. Chiunque di loro sarebbe stato bullizzato se avesse infranto le regole del gruppo, se accadeva sempre più spesso con Zacary era perché lui non riusciva mai a seguire fino in fondo le linee guida. Non era colpa sua se il ciccione era stupido, era colpa del suo cervello pieno di grasso. Ed effettivamente, il ragionamento non faceva alcuna piega.
"Allora, avete capito un po' cosa è successo ieri?", dichiarò Leopold, non appena si sedette al tavolo dove era accomodata la sua intera squadra, tranne l'anello debole e strabordante di essa.
"No, cosa?", domandò Adam interessato, afferrando la propria piadina con pollo dal vassoio e addentandola con famelicità.
Eric e Raynis ascoltavano in silenzio, mentre la gigantesca sala mensa si riempiva sempre di più di studenti, professori e personale intenti a consumare il proprio pasto, in quell'ora di pausa dedita al pranzo per ogni forma di vita dell'istituto.
"Ieri portai dei palloncini a scuola e li riempii d'acqua quando la maestra d'arte ci diede il permesso di tornare in classe a prendere le nostre cose, a pochi minuti dalla fine della giornata".
"Che dovevi farci?", chiese ancora una volta Adam, sempre più eccitato da quel racconto non ancora iniziato. Essere un braccio destro non è mai così semplice come sembra, se si vuole cercare di essere perfetti e mai traditori.
"Dovevo colpire e bagnare alcune ragazze della classe in fondo al corridoio, perché durante l'intervallo di ieri mi hanno chiamato gay".
"E lo hai fatto?", intervenne a quel punto Eric, quasi intimorito dalla scelta di questo tipo di vendetta ad una infantile offesa come quella.
"Ovviamente!", tuonò Leopold, ridendo come un pazzo.
"Che peccato che non ci fossi", affermò rammaricato Adam, abbassando lo sguardo e immaginandosi la fantastica scena a cui non aveva assistito per essere tornato a casa prima del tempo. Perché sua madre non lo aveva portato dal dottore di pomeriggio?
"Però non è questo il punto", aggiunse poco dopo il boss, assaggiando una cucchiaiata di fagioli edemame.
"E qual è?".
"Zacary era presente e le ragazze lo hanno detto alla loro insegnante dopo che le ho colpite con tutti i gavettoni. Il ciccione ha confermato la storia delle due e ha fatto la spia, infatti domani mattina mia madre deve venire a parlare con la preside".
Gli occhi di tutti e tre si spalancarono di colpo, increduli del tradimento così palese e bastardo che il loro amico aveva perpetrato. Come si fa a fare la spia su una cosa del genere? Come si può pugnalare alle spalle un amico su un avvenimento di questo tipo? Si sa che la punizione sarebbe potuta essere pesante, perché Zacary non gli aveva guardato le spalle dando delle bugiarde a quelle due vipere?
"Oggi il grassone non è venuto a scuola, perché sua madre lo ha portato ad incontrare suo padre all'ospedale psichiatrico. Alle 15:15 però sarà qui fuori ad aspettarci, visto che gli ho detto che andavamo a giocare a calcio a Bowes Park", dichiarò di colpo Raynis, dando delle informazioni vitali per l'organizzazione di un piano punitivo.
"Perfetto, andremo a giocare nel parco come se non fosse successo nulla fino al calar del sole".
"E poi?".
"Non doveva fare la spia, quindi lo puniremo in modo esemplare".
"Ovvero?".
"Lo faremo cadere oltre la palizzata dove c'è il pozzo con la croce".

giovedì 13 giugno 2019

#0 La croce nel giardino: le quattro case

A nord di Londra, lungo il manto asfaltato della più che lunga Bounds Green Road, si stagliava un reticolo di case a due piani quasi del tutto uguali. Sotto la luce bianchiccia proveniente da quel cielo torbido e ricco di nuvole sbiadite, i giardini che anticipavano gli ingressi di quelle abitazioni erano freddi e umidi. Il traffico era scarso per essere un mercoledì qualunque, ma il numero di auto e di motorini da consegna non era poi troppo esiguo per le persone che circolavano sui marciapiedi o aspettavano il verde per attraversare la strada.
Alla fine di quest'arteria periferica, subito dopo i famosi parchi di Alexandra Palace e Bowes e la stazione metropolitana del quartiere di Bounds Green, una delle proprietà più invidiate dell'intero isolato capeggiava il fronte sinistro della strada principale. Si trattava di un possedimento privato unico nel suo genere, poiché era composto da un quadrato di terra di 250 metri per lato, ai cui angoli facevano capolino 4 case identiche dalla bellezza inaudita. Non erano però le ville angolari a rappresentare il motivo di tanta gelosia, bensì l'appezzamento di terra interno che i 4 proprietari avevano deciso di unire insieme e isolarlo, circondando l'intero perimetro con una palizzata di legno spessa, rinforzata con pannelli di ferro e alta ben 3 metri e mezzo.
Nonostante a nessuno fosse concesso uno scorcio o l'ingresso in tale protetto giardino ben curato, la curiosità aveva sempre pervaso le menti del vicinato, tant'è che molto spesso alcuni droni avevano sorvolato la proprietà, spiando dall'alto i segreti racchiusi in quel forte. Niente di anomalo era stato mai avvistato da questi uccelli metallici, ma un qualcosa di strano era comunque trapelato col tempo.
Quella pianura ricca di verde, oltre ai numerosi fiori e siepi che ospitava, aveva un'altra cosa realmente particolare. Giusto al centro del quadrato di terra, le telecamere volanti avevano più volte inquadrato uno stranissimo disco di metallo con un diametro di 4 metri. Sebbene si capisse benissimo il fatto che si trattasse di un semplice pozzo, magari dalla grandezza un po' anormale, era quello che vi era sopra a destare curiosità.
Una croce d'oro massiccio era infatti saldata sul cerchio ferroso arrugginito, una croce poderosa e luccicante, che con regolarità veniva pulita e lucidata dai proprietari. Non c'era un vero e proprio rimando ad elementi religiosi, visto che la figura di Gesù non era presente e la croce non ricordava affatto quella cristiana. In più ognuna delle 4 estremità finiva con un anello, un anello in cui passava un lucchetto che ancorava e sigillava l'ingresso di quel pozzo.
Quel mercoledì mattina però, i 4 catenacci non erano chiusi e qualcuno li aveva lasciati cadere nell'erba senza alcun ritegno, convinto magari che niente sarebbe entrato e niente sarebbe uscito da quel corridoio verticale.
Liron era in cucina a prepararsi un tea, fischiettando e riscaldando l'acqua con il suo bollitore rapido. La sua villa era quella all'angolo destro in basso, la cui cucina affacciava proprio all'interno del giardino, tramite delle comode porte-finestre.
Quando il coperchio del pozzo fu spalancato e dal suo interno fuoriuscì quel ragazzo insanguinato, lui non se ne rese conto, poiché intento a inzuppare per bene il proprio sacchettino nell'acqua bollente.
Sean indossava solo dei jeans e il suo torso nudo era ricoperto da graffi profondi e macchie di sangue fresco. Tra le dita stringeva una pala sporca di fango ed aveva intenzione di usarla come una mazza da baseball se fosse stato necessario. Quando venne fuori da quel buco fatto nella terra, si voltò indietro per vedere se i suoi compagni lo stessero ancora seguendo. Ramsay saltò fuori dopo pochi istanti, ma di Eric poterono vedere a malapena la testa e le mani, prima che delle urla agghiaccianti inondassero quell'inspiegabile silenzio e lo trascinassero di nuovo nel fondo.
Liron alzò gli occhi perché le grida attirarono finalmente la sua attenzione e, quando notò la presenza di quei due nei pressi dell'ingresso del pozzo, si attivò come una molla, prelevando la propria pistola silenziata dal cassetto della cucina e precipitandosi in giardino.
Sparò tre colpi a raffica, mancando due volte il bersaglio, ma colpendo Ramsay al centro della schiena  con il terzo proiettile.
Sean si voltò spaventato di scatto, dopo aver sentito quei terrificanti sibili e dopo aver visto abbattere il suo amico d'infanzia, mostrando le sue labbra cucite a quel vecchio bastardo che pericolosamente avanzava per non sbagliare i prossimi spari.
Il ragazzo lo mandò a fanculo con la mano destra, mugugnando parolacce incomprensibili attraverso quei fili neri che gli serravano la bocca.
Liron sparò ancora, ma non centrò il bersaglio, e a Sean non restò da fare altro che saltare di nuovo nel pozzo.

lunedì 14 gennaio 2019

#1 Sangue e cemento: scolpire

Quando doveva scolpire, il religioso silenzio era una delle condizioni imprescindibili in cui l'ambiente doveva trovarsi. Le sue lauree e le sue abilitazioni lo etichettavano sia come architetto che come ingegnere, mentre la sua esperienza manuale lo nominava come muratore esperto. Scolpire invece per lui era sempre stato un hobby, sebbene adesso, a causa del suo obbiettivo prioritario, fosse diventato un lavoro vero e proprio. Il silenzio dunque gli occorreva per molteplici ragioni, di cui la prima era il concentrarsi e procedere lentamente e la seconda invece era legata al riflettere e ricordare.
Dopo aver spappolato e tagliato a pezzi il corpo dell'uomo che aveva ucciso, riponendolo in quattro sacchetti neri della spazzatura da dover nascondere nel lago, era ritornato nella stanza di congiunzione tra la porta a sinistra e la porta a destra. Aveva issato il blocco di cemento color malva sul tavolo dove aveva rollato le proprie sigarette e, sempre senza maglia, si era posizionato sotto l'unica lampadina accesa pendente dal soffitto. Sul tavolo aveva riposto martelli dalle varie dimensioni, scalpelli, raspe e un segaccio, ma ad essi aveva accostato le ultime due sigarette al sangue. Una l'aveva fumata dopo le martellate, una dopo il fare a pezzi e una dopo l'imbustamento.
Fissò il cemento, lo accarezzò per assicurarsi della sua solidità, si portò una sigaretta alla bocca e l'accese. Prese i propri attrezzi e cominciò a lavorare la sua scultura.
L'uomo che aveva ucciso non era una persona malvagia e, nonostante la scelta di ucciderlo fosse classificabile quasi come una scelta casuale, in realtà un metro di giudizio per condannarlo a morte lo aveva usato.
La sua vittima era un pompiere, un uomo di coraggio, un uomo che salvava delle vite o che almeno ci provava quando un'emergenza incorreva. I pompieri sono impavidi, hanno fegato, sono il simbolo del coraggio anche quando una missione va a male e il fuoco divora chi doveva essere prelevato dalle fiamme. Non meritava assolutamente di essere seguito da un furgone, di essere tramortito con un bel colpo dietro alla nuca e di essere poi trascinato via senza che nessun occhio indiscreto lo notasse. Men meno si era in qualche modo guadagnato una fine simile, ovvero appeso a testa in giù su ganci da macello prima di essere sgozzato ancora vivo e cosciente. Ma allora perché lo aveva scelto ed eliminato atrocemente?
Ciccò la sigaretta nel posacenere a forma di fiore colorato, prima di rificcarsela in bocca, aspirare e continuare a scolpire. Stava procedendo bene il lavoro, l'omino maschile stava già prendendo forma e il suo volto e le sue spalle erano molto verosimili.
Il pompiere aveva preso parte allo spegnimento dell'incendio che anni prima aveva inghiottito casa sua. Aveva eseguito un lavoro impeccabile e aveva avuto un coraggio da vendere, tant'è che aveva tratto in salvo incolumi sia il suo cane che la sua gatta. Lui aveva pianto di gioia, quando quell'uomo glieli aveva riconsegnati spaventati tra le sue braccia. Per questo aveva scelto lui e per questo aveva prelevato il suo fegato per aggiungerlo come elemento chiave alla scultura che stava realizzando.
Se doveva realizzare una statuetta grossa una decina di centimetri e doveva renderla uguale a sé stesso, come un feticcio che identificasse la sua persona, era giusto che ammazzasse quel pompiere e prelevasse il suo coraggio. Così tutto sarebbe quadrato, no? Scolpendo il cemento con quel sangue e quel fegato, avrebbe potuto creare la forma migliore di sé stesso, ovvero l'uomo abile, coraggioso e impavido che era sempre stato.
Lui aveva sempre creduto che il mondo fosse composto da manifestazioni prive di senso, manifestazioni che però si rifanno a qualcosa che non esiste in questa realtà. Per questo l'umanità è così varia, perché si rifà a qualcosa di superiore che magari non è mai stata manifestata e che tra sé è tutta diversa. Se dunque quelle statuine dovevano essere simbolo di qualcos'altro, era necessario che si aggiungessero gli elementi in grado di specificarne l'identità sia fisica che spirituale.
Il cemento per l'umanità.
Il sangue per la spiritualità.
E il fegato per l'individualità.
Il trittico perfetto, la triade indissolubile: l'uomo, la realtà e l'aldilà.
La penultima sigaretta era stata spenta da un pezzo, quando finalmente completò la propria statuina. Non era convinto di quanto tempo fosse trascorso, ma si sentiva stanco e spossato come non gli accadeva da anni.
Si alzò in piedi e, posizionandosi perpendicolarmente sotto la lampadina, osservò la statuetta che rappresentava sé stesso.
Il colore era ancora a metà tra malva e vinaccia, ma la precisione con cui l'aveva realizzata era indiscutibile. Gli somigliava leggermente, ma il suo fisico e la sua pelata erano pressoché identiche, come anche il tatuaggio con scritto Tormento dietro al suo collo.
Poggiò il suo lavoro sul tavolo e raccolse le chiavi del furgone e della sua imbarcazione. Doveva far sparire i resti di quel corpo per sempre, ma prima si accese l'ultima e conclusiva sigaretta al sangue.

venerdì 11 gennaio 2019

#0 Sangue e Cemento: il martello

Osservando le sue mani lisce e curate mentre rollava le sue sigarette di tabacco, non si sarebbe mai detto che quei palmi e quelle dita appartenessero ad un muratore esperto. La grazia con cui muoveva le sue estremità e la delicatezza della pelle non avrebbero mai suggerito l'appartenenza di esse ad un tipo di lavoro così manuale, dunque realmente a volte non bisogna giudicare un libro dalla sua copertina.
Piegato su quel tavolo da lavoro con a ridosso tutti quegli attrezzi sparsi e sporchi e quell'unica lampadina ad illuminargli il cranio calvo e il corpo denudato, eccetto per le mutande, era interessante notare come si dedicava con meticolosità a quell'azione che ormai compiva da anni. I suoi occhi verdi erano rapidi e vispi e cercavano di controllare attentamente che non ci fosse nessuna piega nelle cartine appena leccate e chiuse, come se questo potesse influenzare o cambiare qualcosa nel fumare.
Ne completò 5 in tutto e senza alcuna forza, per non piegarle e per non romperle, le raccolse con una sola mano. Si alzò in piedi, deglutì e andò prima a controllare che la porta alla sua sinistra fosse chiusa per bene, prima di dirigersi verso quella di destra.
Spalancò l'uscio, accese la luce e guardò il corpo appeso al gancio a testa in giù. I due spuntoni acuminati infilzavano da una parte all'altra i tendini di Achille assicurando che il cadavere fosse ben sospeso da terra, così come viene fatto in macelleria con gli agnelli sfasciati e gli altri tipi di animali da macello. Giudicando dal colore bianchiccio e dal pallore mortale che ricopriva quasi ogni angolo della pelle di quell'uomo, quasi tutto il sangue doveva essere sgorgato fuori dalla sua gola squarciata, precipitando in quella gigantesca bacinella di plastica azzurra poggiata al suolo. Era cresciuto in campagna, quindi sapeva benissimo come si sgozza un maiale. Suo zio e suo padre gli avevano fatto praticare la sua prima incisione alla gola quando aveva appena 11 anni.
Si avvicinò al cadavere, ne annusò la putrefazione e poi si chinò verso il contenitore di plastica quasi del tutto pieno. Qualche gocciolina colava ancora. Prese una alla volta le sue sigarette e le intinse lievemente nel sangue su di un lato, appoggiandole poi a terra sul fianco non imbrattato cosicché si asciugassero.
Un corpo umano contiene circa 5 litri di sangue e fondamentalmente può essere riconosciuto da tutti in ogni ambito di studio come la migliore icona simbolica della vita. Più dell'acqua, più del vino, più dell'alcool e dell'urina. Ogni tipo di scienza o religione usa la metafora del sangue per identificare il carburante della vita, peccato che questo venga spesso dimenticato e quel liquido rosso venga associato alla morte, all'assassinio e alla paura, oltre che alla trasmissione di malattie virali.
Ma lui conosceva bene il sangue e le sue proprietà, ecco perché faceva ciò che stava facendo.
Mentre i suoi mini-bastoncini di tabacco si asciugavano, recuperò il suo coltello da macellaio. Si avvicinò al lato dell'addome di quell'uomo, che aveva brutalmente ammazzato, e constatò la presenza del rigor mortis. I suoi muscoli erano rigidi, ma quella lama lo avrebbe affettato a meraviglia.
Spostò il secchio e infilzò l'uomo dall'altezza dell'ombelico, tranciandolo man mano fino ad arrivare allo sterno. Il rumore della carne che veniva affettata era simile a quella di un quarto di bue sfasciato, non c'era assolutamente alcuna differenza. Gli occorreva un solo organo in quel frangente, quindi non sarebbe servito a niente cominciare una vera e propria autopsia, per questo era partito da sopra al pube. 
Allargò leggermente i lembi e cavò il fegato sporco di sangue e bile. Raggiunse uno dei tavoli presenti nella stanza illuminata dai neon e lo depositò nella sua centrifuga. Gli serviva liquido, quindi accese il macchinario e lo frullò totalmente.
Sebbene avesse già ucciso un uomo, avesse già chiuso le sigarette e centrifugato il fegato, il vero lavoro ancora doveva iniziare, per cui cominciò ad affrettarsi iniziando pure a fischiettare dalla felicità. Versò l'organo liquido nella bacinella e la accostò a quella più insolita che possedeva nell'angolo, la cui forma era un cubo perfetto. In quella vuota aggiunse acqua e leganti idraulici e mescolò con forza per ottenere la sua pasta cementizia, aggiunse a quel punto un bel po' di sangue e fegato liquido e completò il suo cemento dal colore compreso tra vinaccia e malva. Riempì quasi totalmente la bacinella cubica e poi la lasciò riposare... avrebbe dovuto solidificarsi completamente prima di poter cominciare a scolpirla.
Si riavvicinò al tavolo della centrifuga e prelevò il proprio gigantesco martello da carpentiere. Lo appoggiò a terra, fissando la parola TORMENTO incisa sul legno, la stessa che lui aveva inciso sulla propria pelle con un tatuaggio dietro al collo, e tirò giù il cadavere. Fare a pezzetti piccolissimi un essere umano è più semplice se tutte le ossa sono frantumate, ma a quanto pareva nessuno ci aveva mai pensato prima d'ora, o almeno nessuno di sua conoscenza. Inoltre, dopo aver rimosso tutto il sangue con uno sgozzamento, non c'era neanche troppo da pulire dopo, quindi era lecito domandarsi perché nessuno facesse mai una cosa del genere, ma forse non c'erano troppi stomaci forti in circolazione. Un corpo ridotto a pezzi dopo una frantumazione simile è più semplice da mettere in un sacchetto da gettare in un lago o nel mare e si può stare certi che non risalirà mai a galla.
Raccolse Tormento e lo soppesò, poi come una ghigliottina infida e malefica, cominciò a calarlo più e più volte sulle varie giunture e sulle varie parti del cadavere. Il rumore di carne e ossa che si spappolavano erano assordanti, ma questo non gli impedì di infliggere più di cinquanta colpi.
Passarono quasi dieci minuti, dopodiché prese una sigaretta da terra.
Appoggiò la testa sporca del martello al suolo e si resse con una mano sul suo manico.
E mentre il suo impasto di sangue e cemento si solidificava e la sua vittima giaceva come una poltiglia irriconoscibile, in attesa di essere tagliata a pezzi, lui si fumò per la prima volta una sigaretta al sangue.

martedì 4 settembre 2018

#1 Dark and Ness: vivere circondati dai demoni

Stando a quello che si legge e si vede sui social network, moltissime persone credono di vivere una vita isolata, poiché circondati da gente falsa e cattiva che cela un'altra versione di sé oltre la maschera che mostra. Fotografie con volti di cera o di vetro che ti passano accanto, sfiorandoti e sorridendoti come se fossero amici, provano a comunicare il disagio che la maggior parte della gente vive sentendosi non integrata nella propria realtà.
Questo era comunque quello che provava Jeff, il cui soprannome ormai era diventato automaticamente Dark, dal momento in cui aveva iniziato a vestirsi in maniera appunto più dark e ad ascoltare musica heavy e death metal, associando anche altri sottogeneri più pesanti che è inutile specificare per la loro pochissima diffusione mainstream.
Era l'unico in tutta la scuola a sfoggiare un abbigliamento simile, sebbene quel tipo di musica fosse prediletta da più di una decina di persone. A lui non interessava il giudizio degli altri, ma quando alcuni caproni lo prendevano in giro con quel nomignolo, interiormente qualche fendente gli arrivava. Non era fatto di pietra e quelle false facce che aveva intorno lo facevano rabbrividire.
Chiuse l'armadietto dove aveva appena riposto i libri della prima ora, i quali ormai non gli servivano più, e vi si appoggiò contro con la schiena. Si guardò intorno per vedere se ci fosse qualche professore o qualche bidello di passaggio e cominciò a rollarsi una sigaretta. Era sempre un rischio fare una cosa del genere. Non solo non aveva ancora diciott'anni, ma all'interno della scuola non c'era nessuna area per poter fumare e di allarmi antifumo ce n'erano centinaia. Tuttavia lui non lo faceva come sorta di ribellione al sistema, lui fumava per rilassarsi, cosa ancora peggiore. È così che nascono le dipendenze.
"Quanto è ribelle Dark, il frocetto? Guardatelo! Si chiude una sigaretta con le sue mani!", canzonò un ragazzo di passaggio, vestito con la camicia e i jeans strappati. Il gruppetto fotocopiato dei suoi amici rise di vero gusto a quella derisoria frase.
Dark gli mostrò il dito medio, infilandosi poi la sigaretta nel gilet tempestato di borchie. Gli snob gli fecero il segno del vomito prima di allontanarsi. La maggior parte di loro pippava la cocaina nei bagni, per questo si sentivano ricchi, potenti e superficiali. Lui li odiava tutti, a prescindere dalla loro etichetta sociale.
Andò in bagno allora, tirando un sospiro di sollievo quando vide che non c'erano persone indiscrete o spione. Si avvicinò alla finestra che ormai si era abituato ad usare e la spalancò, passandovici attraverso per sedersi sul davanzale con i piedi penzolanti nel vuoto. Si trovava al secondo piano, ma quella finestra affacciava sul cortile. D'inverno non c'era alcuna possibilità che qualcuno lo vedesse e lo facesse passare dei guai.
Si accese la sigaretta e, socchiudendo gli occhi, fece una lunga boccata rilassante.
Che si fottano tutti, pensò.
Quando riaprì le palpebre, il suo sguardo venne catturato da qualcosa di insolito. In fondo al panorama che aveva innanzi, sul confine di alberi che delimitava il cortile annunciando il bosco, un ragazzo dai capelli viola abbracciava un tronco. Era fermo e immobile, seduto sulle proprie chiappe, ma agguantato al tronco sia con le gambe sia con le braccia. Qualcuno avrebbe potuto pensare che stesse dormendo o che stesse smaltendo i residui di alcool di una serata brava, ma Jeff non faceva parte di questa tipologia di pensatori.
Sarà stato il bosco, sarà stato il silenzio o sarà stata l'inusualità della situazione, ma lui pensò a qualcosa di negativo dinanzi a quella scena.
Ricordò le parole che gli disse Betty da bambini, ovvero quasi dieci anni prima.
Il mondo che ci circonda è popolato da demoni che si nascondono nei corpi degli esseri umani. Lo fanno perché hanno dei propri segreti affari da compiere qui. Entrano attraverso alcuni portali o altri modi che non conosciamo e assumono le nostre sembianze per confondersi e fare ciò che devono fare.
Fece un altro tiro di sigaretta.
Magari quello era un demone nascosto da umano, visto che faceva una cosa che un uomo non avrebbe mai fatto.
Ricordò quei giganteschi occhi gialli che lo fissavano dal confine del bosco.
Chiuse gli occhi per cercare di pensare ad altro.
"Vaffanculo tu, Dark!", disse una voce alle sue spalle all'improvviso, spingendolo e facendolo cadere nel vuoto.
Questo perché a volte sono gli essere umani i demoni di cui dovremmo avere terrore.

lunedì 3 settembre 2018

#0 Dark and Ness: una promessa di sangue

Tre bambini fuoriuscirono correndo dal bosco in cui erano stati intrappolati per più di un'ora. Erano sudati, stanchi, impauriti e spaventosamente sporchi di sangue.
Il maschietto, Jeff, aveva le mani imbrattate di liquido rosso e non faceva altro che fissarsele mentre correva cercando di non inciampare. La bambina dai capelli biondi, Sarah, aveva soltanto il proprio vestitino rosa sporco, ma se ne fregava visto che era più importante fuggire, piuttosto che ricordare ciò che avevano appena fatto o pulirsi per nascondere le relative prove del misfatto.
La seconda bambina, quella dai capelli rossi, il cui nome era Betty, rideva mentre la fuga era in atto. Era quella più sporca di sangue tra i tre. Ce l'aveva tra i capelli, sul viso, sulle mani, sulle scarpe. Era quella che aveva cominciato tutto e che si era fatta aiutare nel completamento. Era stata senziente e cosciente per tutto il tempo, motivo per cui la sua paura interiore era minore rispetto a quella degli altri. Nei suoi occhi c'era un piccolo barlume di sadismo, ma forse erano soltanto l'adrenalina e la voglia di vendetta che aveva consumato.
Corsero per centinaia di metri nella radura aperta, vedendo uccellini volare via ed evitando di voltarsi indietro. Il fatto che il cielo fosse azzurro e senza nuvole pareva essere una condizione di contrappasso, considerando ciò che avevano commesso.
Si fermarono quasi al centro della piana, in un piccolo cerchio di terra bruciata con un falò spento e dei grossi massi messi lì come piccole panche di pietra naturale. Guardarono il bosco alle loro spalle ed un grido gutturale e minaccioso risuonò nell'aria, facendo scuotere violentemente gli alberi e i cespugli. Due occhi giganteschi e gialli apparvero tra alcuni tronchi a distanza di alcuni metri tra loro. Una zampa nerastra, larga almeno 3 metri e dagli artigli acuminati, apparve dal nulla, schiacciando come se niente fosse un arbusto ricco di spine. Lo sbuffo e il respiro di quell'essere immondo, dopo l'ululato, furono spettrali e raccapriccianti. I ragazzi non credevano ai propri occhi.
"Perché ci siamo fermati? E se continua ad inseguirci e ci raggiunge? Non dovremmo allontanarci di più?", chiese senza sosta Sarah, perdendosi nello sguardo maligno della bestia che li osservava.
"Non può uscire dal bosco, stai tranquilla", dichiarò Betty, mettendo una mano sporca di sangue sulla spalla della bambina spaventata.
"Lo credo anche io", confermò Jeff, deglutendo e distogliendo lo sguardo da quelle sfere gialle bramanti. Avevano rischiato grosso. Se li avesse presi, a quest'ora sarebbero tutti stati solo carne da macello.
"Dobbiamo promettere", esordì Betty.
"Promettere cosa?".
"Dobbiamo promette che non racconteremo a nessuno quello che abbiamo fatto nel bosco e che non diremo mai neanche come è fuoriuscito quel coso che ci ha inseguito".
Jeff e Sarah si guardarono terrorizzati. Entrambi erano innamorati di Betty ed era per questo che l'avevano aiutata a fare ciò di cui lei aveva strettamente bisogno. Il sentimento forte che provavano li aveva fatti inoltrare nel bosco, nonostante le assurde storie riguardanti il mostro che lo popolava e che si erano rivelate essere veritiere.
Avevano soltanto 6 anni ed era estate. Tra meno di un mese sarebbe iniziata la scuola e la ragazzina dai capelli rossi avrebbe cambiato città, lasciandoli da soli per sempre, con quell'emozione inespressa e quell'amore acerbo e fanciullesco.
Betty si passò sulle labbra il sangue di cui aveva le mani zuppe. Prese per mano i suoi due compagni e poi li baciò entrambi sulle labbra, sporcandoli di liquido rosso. Sarah e Jeff provarono un po' di ribrezzo, ma il fatto che la stessero baciando cancellò completamente dalla loro mente la presenza di quel sangue.
La promessa era suggellata, non avrebbero più potuto raccontare a nessuno le vicende di quel giorno.
"Ci rivedremo", annunciò Betty con risoluzione. Era l'unica che tra loro sembrava già essere adulta nonostante la sua giovinezza.
Fissarono tutti e tre il bosco, dove ormai non era più presente quell'essere gigantesco. Si presero per mano e si avviarono verso casa.
Quella fu l'ultima volta che Sarah e Jeff videro Betty, anche perché quando tantissimi anni dopo la rincontrarono... beh, lei non era più la stessa.

sabato 16 giugno 2018

#1 Kill Her: una setta ascetica

Le fiammelle traballanti delle candele rosse accese illuminavano un androne vuoto ricco di panche e di alcuni tappeti circolari. Un odore di chiuso si stanziava a ridosso delle pareti tinteggiate di beige, mescolandosi ad un ulteriore olezzo mefistofelico che proveniva dal cielo. Lungo il soffitto macchiato di muffa infatti, una fila di grosse croci di legno erano inchiodate orizzontalmente. Su di esse erano legati degli scheletri umani di diverso colore: alcuni biancastri, altri neri e ammuffiti, altri ancora sfoggiavano un giallo pallido e spento. Solo una croce conservava su di sé un corpo quanto meno fresco, ma anche quest'ultimo, posizionato grosso modo dove vi era l'entrata principale del luogo, era comunque in uno stadio di putrefazione avanzata. Era pressoché deceduto da quasi un anno circa.
La porta si spalancò, venendo anticipata da un brusio di voci sommesso, e dodici uomini entrarono all'interno dell'androne, posizionandosi giusto al centro e abbassando i propri sguardi al suolo.
Non indossavano tuniche, non indossavano cappucci, non portavano alcun cimelio religioso o alcuna reliquia. Eppure le parole che pronunciavano erano versetti in latino della bibbia, recitati a memoria. Stringevano le mani come quando si prega e gettavano i propri sguardi sottomessi verso il pavimento. Non erano preti però ed erano vestiti in modo del tutto casuale. Non avevano neanche un vangelo o un altro tipo di testo religioso e di certo non parevano intenzionati ad inginocchiarsi.
Dopo alcuni minuti, il silenzio prese il sopravvento e tutti rialzarono lo sguardo, puntandolo verso il mosaico di scheletri e croci che componeva il soffitto. Delle lacrime bagnarono alcuni dei volti ed uno di questi ruppe il cerchio formatosi, mettendosi al centro.
"Questa notte, amici miei, è cominciato finalmente il nostro piano. Questa notte, amici miei, i nostri dodici omicidi hanno riempito il vaso che da quasi un anno attendiamo di rovesciare e distruggere. Quello che ci è stato fatto deve essere ripagato e quello che deve essere ripagato va portato a compimento con rapidità. Dopo quasi 2000 anni, la nostra setta è stata affrontata e sbeffeggiata e noi non possiamo minimamente permettere che questo resti impunito. Dobbiamo inoltre riportare lo splendore e il vigore sulla nostra reputazione e sulla nostra supremazia, prima che il Secondo Millenario venga celebrato, altrimenti la discordia e il disonore faranno estinguere tutti noi. Perderemmo la dignità se non lo facessimo! Noi siamo esseri umani, siamo dei, siamo plasmatori del mondo e profeti della parola creatrice. In alto le nostre Armi di Distruzione, benediciamole prima del compimento del secondo passo!".
Ognuno degli uomini, dopo aver ascoltato le roche e carismatiche parole dell'uomo apparentemente leader, rimosse dalla cintola dei propri pantaloni un utensile casalingo. Qualcuno stringeva un martello, qualcun altro un forchettone per gli spaghetti e qualcun altro ancora una grattugia. Erano strumenti normali, acquistabili tranquillamente in qualsiasi supermercato o ferramenta. Vennero alzati al cielo stretti da entrambe le mani degli accoliti e, sotto la luce dei ceri, il sangue che li ricopriva tutti brillò lucido e focoso. Quelle erano le dodici armi contundenti dei delitti notturni.
"Abbiamo usato la nostra simbologia al meglio con le nostre potenti reliquie!", strillò improvvisamente il leader.
"Benediciamole!", risposero tutti in coro.
"Abbiamo lasciato i nostri significati, nascondendoli con quegli stupidi pentacoli e con quegli altri simboli privi di senso!".
"Benediciamoli!".
"Abbiamo suggerito una falsa pista a chi di dovere!".
"Benediciamola!".
"Abbiamo lasciato però inciso il nome di chi dovrà pagarla...", concluse sussurrando, ma venendo udito da tutti i presenti, i quali non fecero attendere la propria bofonchiata risposta.
"Selene... che tu sia maledetta...".
E il silenzio cadde di nuovo.

venerdì 15 giugno 2018

#0 Kill Her: i dodici inspiegabili omicidi

Selene parcheggiò la propria auto nel vialetto di casa come ogni sera quando ritornava dal dipartimento. Si sentiva stanca e spossata, ma finalmente era venerdì ed il suo turno di lavoro, protrattosi per due lunghissime ore in più, era già finito. L'indomani sarebbe stata libera, il sabato era sempre il suo giorno di riposo e di solito lo passava andando al parco o vedendosi con le amiche.
Per essere un detective capo di 40 anni e rotti della sezione investigativa, era comunque una donna che si teneva in forma e conservava il proprio corpo tonico grazie all'attività fisica e alla palestra, dove andava a sudare almeno 4 volte alla settimana. Se non si fosse sparsa la voce del suo essere single e del suo non avere figli o legami sentimentali, sarebbe potuta passare tranquillamente per una splendida ed affascinante madre di mezza età. Magari una di quelle su cui tanti adolescenti, ma anche tanti adulti, fantasticano in privato o in compagnia di amici stretti e pervertiti.
Tirò il freno a mano, richiuse la porta del garage alle proprie spalle e finalmente spense l'automobile, lasciandosi andare ad un lungo e meritato respiro di sollievo.
Era a casa, era sola e adesso avrebbe potuto rilassarsi. Per almeno 24 ore non ci sarebbero stati omicidi su cui investigare, scene del crimine insanguinate dove trovare indizi o ricostruire atti violenti, prigionieri o sospettati da interrogare e mettere sotto torchio e parenti da consolare in qualche modo. Sola, libera, leggera, rilassata, solo questi sarebbero stati gli stati d'animo di cui avrebbe dovuto prendersi cura e relativamente preoccuparsi. Non c'è cosa migliore infatti per l'essere umano di quella di non dover pensare a nulla e dover solamente mettere in atto il proprio godibile relax.
Entrò in casa dalla porta interna del proprio garage, chiamò e salutò la sua piccola gattina di nome Anya, mettendole anche dei buoni croccantini freschi, e poi fece una corsa diretta verso la doccia. L'acqua calda era per lei una droga tanto potente quanto lo erano delle buone coperte fresche e tiepide sotto cui addormentarsi dopo una giornata di lavoro.
Si lavò con calma ovviamente, facendosi un lunghissimo shampoo, depilandosi le gambe con il rasoio usa e getta e passando sulla propria pelle le varie creme corporee e creme viso che solitamente usava per idratarsi. Applicò anche una maschera facciale, prima di scendere al piano di sotto, difatti la sua gatta si spaventò quando le vide il viso verdognolo a causa dell'aloe vera. Scoppiò a ridere quando la vide correre via dalla sedia su cui si stava leccando, per fuggire a nascondersi sotto al divano.
Prese una delle bottiglie di birra che aveva nel frigo e mise nel microonde degli avanzi di pasta da riscaldare. Mettersi a cucinare qualcosa di fresco alle 10 di sera non sarebbe poi stata una buona idea, tanto valeva non buttare quel cibo che aveva già preparato il giorno prima.
Stappò la bottiglia con l'uso di una forchetta e fece un inebriante e fantastico sorso gelido. Il liquido giallo scese in gola come uno dei più fantastici nettari mai conosciuti, riscaldandola e raffreddandola allo stesso tempo. Si sedette sul divano e accese la televisione.
Cominciò a far scorrere i canali perché non aveva minimamente idea di cosa voler guardare, ma quella pigrizia e quella inerzia erano semplicemente le parti integranti del proprio modo di rilassarsi. Non doveva fare nulla e non doveva pensare a nulla. Punto e basta.
Poi però avvennero nello stesso momento due cose tremendamente collegate.
Lei si soffermò per un solo secondo su un notiziario notturno di una tv locale e il suo cerca-persone suonò con ingordigia e avidità.
Dodici cadaveri erano stati scoperti dalla polizia grazie a telefonate anonime e apparentemente tutti quanti erano morti durante lo stesso lasso di tempo.
Prese il cerca-persone già sapendo che quella serata sarebbe andata a farsi fottere, ma prima che potesse anche solo leggere il messaggio, il suo telefono di casa suonò. Era il suo collega e le chiedeva di ritornare subito in dipartimento.
"C'entrano i 12 omicidi che ho appena visto al notiziario?", domandò annoiata e incazzata.
"Sì, Selene".
"Io ho finito il mio turno e domani non devo lavorare, quindi perché mi stai chiamando? Convoca Charles!".
"Non è solo l'orario che accomuna queste morti", spiegò con voce roca il suo collega.
La donna con ancora i capelli umidi deglutì e non riuscì a chiedere di cos'altro si trattasse, prima che la persona all'altro lato del telefono glielo comunicasse direttamente.
"Sono stati uccisi tutti con un'arma contundente diversa, è stato disegnato un pentacolo con il loro sangue sulle mura dei vari soggiorni e sulla pelle dei loro polpacci è stato inciso il tuo nome...".
Il microonde fece risuonare la propria campanella per annunciare il piatto pronto e riscaldato. Peccato che quella sarebbe stata una pasta che mai avrebbe mangiato, esattamente come quei capelli umidi con cui si rigettò nella notte senza mai più asciugarli.

giovedì 19 aprile 2018

#46 Haters: foto di morte sui social network

Alla polizia fu segnalato da diverse persone che uno dei loro amici o conoscenti aveva pubblicato su facebook delle foto del proprio corpo morto. Decine e decine di fotografie in cui si vedeva il suo volto scarnificato e sorridente avevano tempestato le bacheche dei maggiori social network in circolazione. Si trattava di un ragazzo normale, un manager di un ristorante della zona, che all'improvviso senza alcuna ragione aveva pubblicato foto delle proprie mani raschiate, foto del proprio corpo mutilato ed infine una fotografia completa del tuo corpo completamente scuoiato e fatto a pezzi.
L'intervento delle autorità fu repentino e, quando irruppero nella casa dell'uomo in questione, trovarono il suo cadavere adagiato sul tavolo della cucina. A terra c'erano litri di sangue, resti come pelle, organi ed ossa e impronte di scarpe che sembravano appartenere all'uomo stesso. Il suo cellulare era stretto dalle sue dita scheletriche ed era completamente zuppo di liquidi corporei come sangue e bile. Le foto erano state scattate da quel telefono ed erano state direttamente pubblicate sugli account social della vittima.
Non c'erano impronte e non c'erano tracce di altro dna appartenente all'assassino, come se l'uomo avesse fatto tutto da sé, cosa ovviamente impossibile. Non c'erano piste e non c'erano moventi. Anche se riuscirono a ricostruire grossolanamente gli avvenimenti, per la polizia era impossibile risalire ad un probabile esecutore.
Quell'uomo era morto senza ragione e le foto del suo cadavere erano state condivise pubblicamente. L'assassino aveva utilizzato uno strumento rivestito da carta vetrata per ridurre quell'uomo in quella condizione e lo aveva fatto mentre lui era ancora sveglio e senziente. Doveva essere stata una sofferenza atroce.
C'era una cosa ulteriore però che la polizia non riusciva a spiegare, ovvero la mancanza dei due piedi dell'uomo, i quali parevano essere stati rimossi e tagliati tramite l'utilizzo di uno strumento seghettato, come un coltello da pane o un seghetto per il legno.
Perquisirono tutta la casa ma non trovarono né armi del delitto né i pezzi mancanti di quel corpo così straziato.
Il caso fu passato alla sezione investigativa, appoggiata ovviamente dalla sezione scientifica.
Io fui meravigliato dalla bellezza e dalla perfezione di questa esecuzione, ma quello che mi fece più ridere lo vidi attraverso la webcam del computer di Carmine.
Sì, perché quell'uomo aveva portato via con sé i due piedi che aveva reciso e, tramite la telecamera,  io vidi che li stava utilizzando per masturbarsi mentre vedeva il video del suo primo omicidio privo di necrofilia.
Avevo creato senza difficoltà un perfetto haters.

martedì 10 aprile 2018

#40 Haters: sono la voce nella tua mente

Carmine spense il computer e tramite il suo cellulare controllò in che situazione si trovasse il suo conto bancario. Pagare l'uomo dell'agenzia funebre per portare una donna sul posto, ucciderla, scoparla da defunta e poi bruciarne il cadavere nel forno crematorio gli era costato abbastanza soldi.
Fissò i numeri e ripensò a quello che aveva fatto e a quanto lo avesse fatto stare bene. Aveva abbastanza fondi per poterlo rifare almeno altre 4 volte, se non considerava le carte di credito e i prestiti che avrebbe potuto richiedere alla sua banca.
Com'è stato? Meglio della normale necrofilia o simile? Dai, racconta!
Nella sua testa risuonavano le parole di quei due utenti con cui aveva parlato sul forum del deepweb. Se non fosse stato per loro, non avrebbe mai scoperto quella fantastica sensazione, anche se prima, durante e dopo era comunque stato in una fase di confusione.
Ti è piaciuto dunque... ma hai capito se è più soddisfacente ed eccitante oppure no?
Chiuse l'applicazione sullo smartphone, prese una birra dal frigorifero, la stappò e andò ad accomodarsi sul divano. Fece un sorso lunghissimo e rinfrescante e poi ripensò a tutto quello che aveva fatto. Il martello che si infrangeva contro quel cranio fragile, gli schizzi di sangue, il suo membro che penetrava all'interno dei tessuti molli di quel cervello, il sesso frenetico e ricco di urla che ne era conseguito. Era stato tutto così estasiante che gli mancava ancora il fiato se ci rimuginava su.
Quindi è stato soddisfacente ed eccitante, ma non sei riuscito a capire se è meglio uccidere da sé le persone oppure no? Cioè, stai dicendo che non ti è servito praticamente a nulla visto che sei confuso a riguardo...
E lui lo era davvero e parecchio anche. Non riusciva a comprendere però se fosse stato più coinvolgente uccidere quella donna o scoparne il cadavere. Insieme erano due cose pazzesche, ma a lui sembrava importante capire quale delle due azioni fosse più gratificante. Ma come poteva fare per riuscirci?
Uccidi un'altra persona senza poi scoparti il suo corpo, in questo modo focalizzerai tutto sulla sensazione di uccidere e capirai se è maggiore o minore della tua necrofilia...
E quando quelle parole risuonarono ancora una volta nella sua mente, Carmine si convinse. Quello che diceva quell'utente era giusto. Se avesse fatto in questo modo, avrebbe capito al 100% cosa fosse migliore.
Si alzò in piedi e finì la birra, era tempo di raggiungere la soddisfazione nuovamente.
Io sorrisi perché ero già soddisfatto. Sì, perché non c'era estasi migliore di sentirsi come una voce nella sua mente.

mercoledì 31 gennaio 2018

#1 Haters: i forum dei suicidi

Il deepweb era il posto migliore da cui cominciare. Non tutti sanno accedervi, non tutti possono effettivamente entrarvi e non tutti sanno muoversi nelle sue profondità per trovare le cose più impressionanti ed illegali mai esistite.
Il deepweb è un ricettacolo complesso ed intricato di informazioni nascoste e di possibilità criminose mai viste. Nel deepweb è possibile trovare di tutto, al suo interno si possono comprare armi in un secondo e si possono anche acquistare bambini. La prostituzione, i vari traffici di droga e la pedo-pornografia oltre quella zoofila sono veramente all'ordine del giorno. Vengono anche offerti servizi di hacking e stalking. Nel deepweb si può trovare di tutto e nessuno può essere rintracciato, anche perché per entrarvi bisogna fornirsi dei motori di ricerca giusti, di link già conosciuti, di inviti particolari e di software in grado di cambiare l'IP tempestivamente.
Una cosa è però essere un utente nel deepweb, una cosa è essere un hacker nel deepweb e un'altra cosa è essere un provider o uno degli admin di tantissimi link e servizi offerti.
Io non ero un semplice utente, io ero sia un hacker che un provider ed ero l'admin di numerosi link.
Una delle prime cose che creai all'interno del deepweb, prima che cominciassi a capirne i funzionamenti e cominciassi a offrire servizi su servizi, fu un funzionale forum dei suicidi. Aveva l'apparenza di un normalissimo forum, ma le discussioni aperte e con molto seguito erano in relazione al suicidarsi. 
Quali sono i migliori metodi? Avete suggerimenti per fare in fretta senza soffrire? Avete dei metodi efficaci in modo che non si sopravviva? Posso nascondere un omicidio facendolo sembrare come un suicidio? Se sì, come?
Gli utenti erano ovviamente tutti anonimi, tutti alter ego fittizi con nomi numerali e foto profilo fake. Non si forniva neanche l'email per accedervi. Un utente non potrebbe in nessun modo rintracciare un altro utente, considerato anche il costante cambiamento di IP. Ma una cosa è essere un utente e una cosa è essere l'admin del forum, nonché il suo creatore.
Da questa posizione e con le mie doti da hacker, potevo in qualche modo ricavare qualche traccia dei naviganti di passaggio. Con i giusti trucchetti potevo identificare chiunque volessi, quindi mi precipitai su quel forum per testare il mio potere di controllo umano, così da provare la mia tipologia di manipolazione su qualcuno e condurlo passo passo nell'eliminazione delle persone che volevo.
Entrai nel forum e monitorai una discussione sul celare un omicidio sotto forma di suicidio. Misi nel mio target tre persone distinte con tre obbiettivi completamente diversi. Una voleva uccidere suo marito, un'altra voleva eliminare il suo datore di lavoro e l'ultima voleva far fuori suo fratello. Non davano motivazioni né spiegazioni in merito, ma i suggerimenti che gli venivano forniti erano molto interessanti. Scelsi dunque questi tre utenti e annotai anche 4 suggeritori abbastanza creativi ed intelligenti.
Partii dalla donna che voleva uccidere suo marito, si chiamava Lucia e non abitava lontano dalla mia città.
Era iscritta ad un sito d'incontri, posto dove probabilmente tradiva il suo coniuge. Creai un profilo fake e la contattai scrivendole un messaggio semplicissima.
Ciao, Lucia. Piacere di conoscerti. Sono bloccato in una relazione schifosa e monotona da cui ho voglia di fuggire. Cerco qualcosa di tranquillo e per niente impegnativo, che ne dici di provare? Eliminiamo chi ci fa del male insieme?
Lei, ovviamente, mi rispose...

martedì 30 gennaio 2018

#0 Haters: instilla l'odio e manipolerai la morte

Immagine a cura di Tony Di Masi
Il controllo.
Se c'è una cosa che nella mia vita ha sempre avuto una grande influenza nei miei confronti, quello è proprio il controllo. In ogni fase della mia esistenza ha rivestito un ruolo importante e in ogni fase della mia vita ha determinato le mie più grandi scelte.
È cominciato tutto quand'ero bambino, all'età circa di 8 anni. Ero un ragazzo goffo e privo di coordinazione che veniva sempre ripreso dai genitori, dai professori e dagli amici per la pochissima praticità che dimostravo. Spingevo una sedia per spostarla? Cadeva.
Trascinavo un filo a terra? Si incagliava sotto le porte.
Mettevo a posto le posate? Il contenitore cascava.
Appoggiavo un bicchiere sul tavolo? Si rovesciava.
Non riuscivo mai ad avere il controllo dei movimenti o delle cose che eventualmente muovevo io. Tutto accadeva così distante da me che non riuscivo a calcolare al meglio spostamenti e assestamenti. Questo mi impediva qualsiasi tipo di coordinazione.
Decisi allora di allenarmi, di calcolare fisicamente quello che mi succedeva intorno in modo tale da muovermi alla perfezione in ogni semplice situazione. Riuscii ad elaborare un metodo di calcolo rapido così da poter coordinare al meglio i miei movimenti e risultare totalmente efficace in ogni cosa che facevo. Assunsi il controllo di tutto quello che eseguivo e facevo eseguire alle cose che le mie dita sfioravano. Raggiunsi un livello di perfezione nei movimenti così alto e perfetto, che non ho mai più commesso un errore in questo senso.
Quando andai alle superiori optai per un indirizzo informatico perché adoravo i computer e i videogame. I processori e i vari CPU agivano in maniera così controllata e così calcolatrice che quasi li veneravo. Erano perfetti. Non sbagliavano nulla. Con i giusti input, queste macchine calcolatrici erano pressoché infallibili ed efficienti. Volevo proprio somigliare a loro, in fin dei conti.
Mi diplomai con il massimo dei voti e decisi di proseguire gli studi universitari, nel medesimo branca. Fu qui che cominciai ad addentrarmi nel reale mondo informatico, quello fatto di codici, algoritmi e calcoli letterali. Era tutto così criptico e così complesso che decisi di prenderne il controllo ed iniziai ad elaborare i miei personali codici, i miei personali algoritmi e sviluppai numerosi software.
Ero così portato per la materia e per il controllo che essa poteva fornire sul mondo, che diventare hacker fu solo una conseguenza.
Da adulto cominciai infatti a lavorare per alcune aziende come supporter tecnico per problemi informatici. Un lavoro stupido e noioso, ma ben pagato e con orari molto flessibili.
Affittai un monolocale da solo e mi trasferii in città, lavorando per un'azienda che si trovava lì vicino.
Fu a quel punto che presi la mia terza decisione più segnante. Se il controllo di me e di quello che ho intorno mi ha portato all'efficienza nei movimenti e se il controllo dei computer mi ha condotto alla manipolazione della rete e al controllo assoluto di quello che avviene nel mondo, il controllo delle persone a cosa potrebbe mai condurmi?
Prendere il controllo sulle persone è una delle cose più semplici da poter mai realizzare. Tutte hanno un computer e tutte hanno uno smartphone. Se attraverso questi macchinari raggiungessi determinate persone e con il controllo di movimenti riuscissi a controllare le loro azioni e le loro movenze, potrei piegarle alla mia volontà e farle fare tutto ciò che voglio.
I computer sarebbero veicoli di accesso e le mie abilità di controllo riuscirebbero a piegare gli animi di tutti i miei target. Il risultato sarebbe un controllo totale delle persone.
E cosa potrei mai realizzare con un potere simile?
Basterebbe instillare odio, depressione, rabbia ed istinti suicidi per creare degli haters disposti a tutto. Basterebbe l'aggiunta di questi ingredienti ed otterrei delle perfette macchine da morte.
Basterebbe creare degli haters e potrei uccidere tutta la gente che voglio.

mercoledì 20 settembre 2017

#15 Le espiazioni: guardami sbranato

Si erano addormentati mano nella mano, felici e contenti. E si erano risvegliati con queste ultime ancora serrate. Magari in maniera più forte e violenta, ma sempre cinte tra loro.
Si erano assopiti in un luogo di una calura unica e confortante, con tanto di luci soffuse, profumi d'ambiente e coperte. E si erano risvegliati in una puzza tremenda ed un freddo micidiali. Le luci però erano ancora soffuse.
Si erano addormentati con entrambi un tatuaggio sull'avambraccio destro. Ora nessuno dei due lo possedeva più.
Si erano addormentati distesi su un letto, si erano risvegliati appesi a un gancio.
Sì, appesi a un gancio. Un gancio che gli si conficcava ad entrambi dietro alla schiena e si arpionava appena sotto le costole. Il sangue che era uscito era stato copioso, ma il freddo di quella cella frigorifera aveva interrotto il fiotto. Tuttavia la sensazione di dolore lungo la schiena e le ossa, come qualcosa che ti sta tirando via l'anima, era ancora vivida. E sembrava che lo sarebbe stata per sempre.
L'uomo era sveglio e la sua barba era ghiacciata. La donna dormiva e da un angolo della bocca le usciva un rivoletto di sangue marrone e secco. Avevano le dita incrociate e saldate insieme dal ghiaccio, ma i piedi di entrambi oscillavano immoti nel vuoto. Intorno a loro carcasse di animali scuoiati e puzza di carne marcia.
La ragazza si destò all'improvviso e cercò invano di agitarsi e capire cosa stava succedendo. Non riusciva ad urlare, come anche il suo fidanzato appeso accanto a lei. Erano impotenti ed algidi, neanche la più grande forza decisionale e di volontà avrebbe potuto aiutarli.
Da dietro gli animali morti e grondanti sangue, fuoriuscirono delle persone a loro sconosciute. Pallide, affamate, bramanti. Annusavano l'aria come cani in cerca di funghi e fissavano i due con ingordigia e appetito.
Aiutateci, cercarono entrambi di bofonchiare, senza nessun risultato.
Poi inaspettatamente, tutti gli furono addosso cominciando a sbranarli freddi ma vivi.

"Aiutare il prossimo è una delle più belle azioni che si possono fare", proruppe Solomon dopo un altro quarto d'ora d'incisione, accompagnato da un ulteriore racconto di vecchi clienti.
"Tuttavia nessuno si rende conto che il non farlo è un peccato veramente atroce e maligno. Non aiutare, mostrarsi indifferenti, agire da ignavi. Trasmette freddo e cattiveria verso chi invoca aiuto, ma soprattutto li fa sentire sbranati da lacerazioni esterne... che giungono fino al cuore e la mente".

sabato 24 giugno 2017

#1 Savior: piscina di sangue

Quando si sedette a bordo piscina, per riprendere un po' fiato dopo tutte quelle vasche, si accorse che quasi la metà delle ragazze era già andata a fare la doccia.
Si sentiva sfinita, distrutta fino allo stremo. Stava cominciando ad odiare quella faticosa acqua che puzzava di cloro.
La sua allenatrice le spingeva al massimo, le spingeva oltre i loro limiti, dava loro il sogno di una impossibile olimpiade. A sedici anni, senza gare né allenamenti mirati, era ormai improbabile raggiungere quei livelli e finire in quella tipologia di competizioni.
Si alzò in piedi, lasciando che le mattonelle sotto il suo sedere si bagnassero di più e si diresse verso gli spogliatoi, cercando di non scivolare. Non aveva portato le ciabatte, come una stupida le aveva lasciate in borsa.
"Signorina!", disse una voce alle sue spalle. "Non si cammina lungo questa zona senza niente ai piedi! Potrebbe farsi male e gettare acqua ovunque!".
Si voltò per scusarsi, per giustificare quel suo comportamento, ma quando si girò vide un uomo mai incontrato prima. Doveva essere il nuovo istruttore delle classi maschili, un uomo che lei non aveva mai visto.
Era in quei momenti che Lizzy odiava il suo dono, quello di poter vedere oltre, di poter vedere tutto senza filtri. Sapere ogni cosa di una persona senza chiedere il permesso né averne la voglia.
Lo vide sudato a guardare la televisione con tantissime bottiglie di birra vuote sul divano, lo vide scrutare la moglie che piangeva facendo i piatti, lo vide costringerla a scopare, lo vide rompere una sedia soltanto perché la sua squadra aveva perso una partita. Lo vide tossire, lo vide bere. Lo vide guidare e andare a lavoro. Vide quando da piccolo suo padre lo picchiava perché gli piaceva stare in stanza nudo a fissarsi allo specchio, lo vide al mare mentre accarezzava sua figlia. Vide quando abbastanza cresciuto rispose a suo padre, lo picchiò e andò via di casa senza mai più ritornare. Lo vide piangere, lo vide fumare. Ma quello che vide per ultimo, fu sua figlia legata in cantina come un animale. Segregata, frustata e piangente. Adagiata a terra a mangiare in una ciotola, e questo solo perché aveva risposto male.
"Ha capito quello che ho det..." e con un pugno dritto sul naso Lizzy lo buttò a terra, facendogli perdere i sensi.
Una rabbia anormale le era salita in corpo, cruda e selvaggia come mai lo era stata prima. Quell'uomo era una bestia, uno schifoso porco e un lurido padre. Un uomo che aveva sofferto ed aveva fatto sì che la sofferenza fosse il suo comportamento per il futuro.
Lizzy non lo poteva tollerare.
Ma adesso, con lui a terra e con il naso rotto, cosa diamine doveva fare?
Gli diede comunque un calcio nelle palle prima.

giovedì 22 giugno 2017

#0 Savior: Il potere di Lizzy


Si chiamava Lizzy, aveva sedici anni e amava camminare lungo le strade della città. Lizzy era un'osservatrice, un'ascoltatrice, una a cui interessavano i dettagli del mondo e quelli delle persone che lo abitavano.
Lizzy era una ragazza normalissima, i cui interessi rasentavano il comune. Ascoltava la musica rap, leggeva libri gialli, seguiva corsi di nuoto. La normalità più assoluta.
Era uno soltanto il problema di questa ragazza, uno che a primo impatto potrebbe anche non destare nessuno scalpore. Il problema di Lizzy infatti era che i suoi occhi... potevano vedere.
Non ricordava quando fosse realmente iniziata questa cosa, se mai fosse esistita una vera e propria prima volta, fatto sta che il suo sguardo poteva andare oltre quelle che possiamo definire apparenze.
Lizzy si sedeva nei bar a consumare una semplice colazione? Nell'istante in cui andava via, la sua mente era affollata e piena della vita di tutti.
Se voi poteste andare a fondo nel cuore e nell'anima di un essere umano, cosa vi mettereste mai a cercare? I peccati? Le buone azioni? I segreti? L'amore? Le paure? I dolori? Da cosa vi lascereste ammaliare? Potreste sopportare la mole di tutti i ricordi di un uomo?
Lizzy non poteva evitarlo in nessun modo. Lizzy scorgeva distrattamente gli occhi di qualcuno e la sua vita le veniva servita su un vassoio d'argento splendente. Tutto quello che aveva vissuto, pensato e fatto si dispiegava come un tappeto appena pulito. Lei non scavava nelle persone, lei si ritrovava dentro il più profondo dei loro anfratti senza neanche desiderarlo.
Aveva scoperto che suo padre tradiva sua madre. Aveva scoperto che sua madre spendeva più soldi di quanto dicesse. Aveva scoperto che suo fratello non riusciva ad ammettere la sua omosessualità per i violenti bulli che c'erano a scuola. Aveva scoperto che la sua migliore amica era innamorata profondamente di lei.
Aveva scoperto tante cose, come anche il fatto che sapere tutto è soltanto una macabra condanna.
Tutti vorrebbero la conoscenza, ma per fortuna nessuno la possiede davvero.
Se un raggio di sole rischiarasse la mente dell'uomo, gli brucerebbe il cervello.
Bastava voltare lo sguardo e Lizzy cadeva nei vuoti delle anime, cogliendone ogni fottuto dettaglio.
Può sembrare simpatico, ma non lo è minimamente.
Immaginate di guardare all'interno della vera realtà degli uomini.
Se vi trovaste qualcuno di malvagio? Se vi trovaste qualcuno di violento?
Se vi trovaste qualcuno non più vivo?
E se vi trovaste qualcuno che non è umano?
Lizzy poteva vedere...