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mercoledì 26 aprile 2017

#19 Paure dell'uomo: il fantasma della cantina

Dopo la morte di mio padre, nessuno della nostra famiglia mise più piede giù in cantina. Mio padre era quello che riparava tutto in casa, quello che pitturava, quello che si occupava di tutte le manutenzioni. Conservava tutti i suoi attrezzi in cantina, di conseguenza era un luogo che raramente qualcun altro visitava. Una volta che l'infarto lo stroncò nel sonno senza una ragione plausibile, la cantina divenne semplicemente una porta che nessuno voleva aprire. Se c'erano delle riparazioni da fare, io, mia madre e mio fratello maggiore chiamavamo gli esperti del settore.
Un giorno però, trovatomi da solo a casa dopo la scuola, sentii un forte rumore provenire dal pavimento, come se qualcosa fosse caduto provocando un grosso tonfo. Pensai a qualche topo o a qualche altro animale che bazzicando la cantina aveva fatto cadere un oggetto, per cui decisi di andare a dare un'occhiata. Aprii la porta con cautela, venendo sopraffatto da una purulenta zaffata di aria stantia, che quasi mi fece lacrimare gli occhi. Non facevamo arieggiare quel posto da secoli.
Accesi la luce e pian piano cominciai a scendere i cigolanti gradini di legno. Lì per lì mi pietrificai, e quasi mi misi a urlare pensando che fosse un ladro, ma poi quell'ombra in fondo alla stanza mi disse di stare calmo. Afferrai la prima cosa che mi capitò a tiro, una chiave inglese, e gli intimai di non muoversi e di dirmi cosa ci faceva lì.
"Sono un fantasma, caro mio. Sono morto più di ottanta anni fa, non potresti farmi del male neanche se ci provassi. Stai calmo, va tutto bene".
Lo fissai inorridito, mentre faceva dei piccoli passi verso di me. Eppure quelli non erano passi, non aveva i piedi. Svolazzava. Il suo mezzo busto superiore finiva all'altezza della cintola, poi c'era il vuoto. Stranamente non mi sentivo più tanto spaventato, l'idea che fosse un fantasma e non un ladro, mi aveva acquietato in un certo senso.
"Co... co... cosa ci... fai qui?".
"Mi suicidai parecchi anni fa, per solitudine. La mia grande nemica vinse ed io mi impiccai qui sotto. Sono qui alla ricerca eterna dell'amicizia e dell'amore, le due nemiche acerrime della mia carnefice".
"Mmm... mmm... ma hai mai... incon... trato... altre persone?".
"Certo! Come no! In questi tantissimi anni, ho incontrato tantissime persone!".
"Ness... uno... ti ha ai... ai... aiutato a trovare pace?".
"Soltanto uno, ma non ha funzionato".
Lo fissai spaventato, il suo volto era triste. Un uomo sulla quarantina, calvo, dal colore cinereo e trasparente, degli occhi roventi e accesi. Fluttuava e mi guardava con serenità e tristezza.
"Siediti", mi disse. "Voglio raccontarti la storia di chi mi ha aiutato, la storia dell'uomo a cui ho fermato il cuore per potergli permettere di essermi amico per sempre".
Dietro di lui, in fondo alla stanza, intravidi il profilo di mio padre...

giovedì 23 marzo 2017

#1 Paure dell'uomo: Autopsia

Se devo essere sincero, io adoro il posto in cui lavoro. Silenzioso, freddo, buio al punto giusto, intimo, spazioso, solitario. Le mattonelle bianche lucide che risplendono lievemente grazie all'unico neon rumoroso della stanza mi hanno sempre dato conforto, esattamente come il mio carrello d'acciaio con gli attrezzi per autopsia. Mi sento padrone nel mio obitorio, giustiziere, giudice. Sono io che so cosa fare, sono io che spiego agli altri cosa devono sapere. Le persone ascoltano, i morti mi rispettano. Posso stare tranquillo e lavorare senza intralci ed intoppi. Lo stipendio poi non è male.
Quel martedì avevo cinque casi da esaminare, cinque persone che erano morte in maniera quantomeno atroce di cui era stata richiesta un'autopsia per accertarne le cause del decesso. Quel giorno il neon oltre ad emettere il solito suono ronzante, aveva un tremolio sottile che ogni tanto faceva traballare la luce. Arrivai all'obitorio quando ormai era già passata l'ora di cena e sapevo che probabilmente avrei dovuto lavorare fino al mattino successivo. Non era di certo la prima volta che restavo di notte, la gente non muore mai negli orari comodi per i medici legali.
Presi la prima cartella dopo aver indossato il camice e scoprii che era una donna, giovane, giovanissima. Venticinque anni al massimo, bruna, carnagione chiara. Quando rimossi completamente il lenzuolo bianco, oltre a notare le sue deliziose, formose e morte nudità, scorsi facilmente otto ferite da taglio sull'addome, di cui una proprio sotto al seno sinistro, un seno gonfio e giovane. Sul rapporto della polizia c'era scritto che era stata ritrovata in un lago di sangue con il suo fidanzato in lacrime e un coltello in terra. Lui negava, negava. 
Non era stato lui. Il neon sembrava esserne infastidito e cominciò a traballare di più.
Erano una coppia perfetta, si amavano da più di un anno. Non era stato di certo lui ad ucciderla. L'aveva trovata così. Chi? Chi era stato? Questo voleva sapere! 
Il neon era arrabbiato. 
Quel caso era una formalità, era già chiaro il motivo per cui fosse morta. Quel che si poteva aggiungere era qualche altro dettaglio, magari droghe assunte o alcool, malattie veneree, ferite da stupro, altre diverse ferite da colluttazione, sperma. Un corpo morto può parlare più di una bocca viva.
La guardai con tristezza dispiacendomi per quello che le era accaduto, non avrebbe dovuto succedere. Aveva una vita davanti, era giovane, troppo giovane. Dovevo impegnarmi, dovevo scoprire la verità per aiutare ad incastrare il colpevole. Il neon sembrò non essere d'accordo neanche con questo pensiero.
Osservai le ferite dopo aver indossato i guanti, presi il bisturi e cominciai a calcolare da che punto iniziare a tagliare o se fosse meglio osservare più a fondo prima di iniziare. Perché le era capitato tutto questo?
Poi, dal nulla, lei aprì gli occhi. Li spalancò totalmente. Azzurri, profondi, vitrei. Mi fissò spaventata e arrabbiata allo stesso tempo. Io rabbrividii, raggelai, svenni quasi. Il neon stava letteralmente impazzendo, a breve sarebbe esploso.
"È stato lui! Mi ha stuprata... ho reagito... mi ha ucciso per fermarmi... ho bisogno di andare da lui... posso?", parlò con una voce gutturale e spettrale, cercando di fermare il proprio labbro che si incurvava involontariamente all'ingiù. Ero una statua di sale, non risposi.
Si alzò, mi prese il bisturi dalle mani e nuda andò via, mentre io non riuscivo neanche a voltarmi.
Aprì la porta e andò via. Il neon esplose con un fragore assordante. Mi appoggiai al carrello per non cadere. Gli altri morti cominciarono a mugolare...