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lunedì 14 gennaio 2019

#1 Sangue e cemento: scolpire

Quando doveva scolpire, il religioso silenzio era una delle condizioni imprescindibili in cui l'ambiente doveva trovarsi. Le sue lauree e le sue abilitazioni lo etichettavano sia come architetto che come ingegnere, mentre la sua esperienza manuale lo nominava come muratore esperto. Scolpire invece per lui era sempre stato un hobby, sebbene adesso, a causa del suo obbiettivo prioritario, fosse diventato un lavoro vero e proprio. Il silenzio dunque gli occorreva per molteplici ragioni, di cui la prima era il concentrarsi e procedere lentamente e la seconda invece era legata al riflettere e ricordare.
Dopo aver spappolato e tagliato a pezzi il corpo dell'uomo che aveva ucciso, riponendolo in quattro sacchetti neri della spazzatura da dover nascondere nel lago, era ritornato nella stanza di congiunzione tra la porta a sinistra e la porta a destra. Aveva issato il blocco di cemento color malva sul tavolo dove aveva rollato le proprie sigarette e, sempre senza maglia, si era posizionato sotto l'unica lampadina accesa pendente dal soffitto. Sul tavolo aveva riposto martelli dalle varie dimensioni, scalpelli, raspe e un segaccio, ma ad essi aveva accostato le ultime due sigarette al sangue. Una l'aveva fumata dopo le martellate, una dopo il fare a pezzi e una dopo l'imbustamento.
Fissò il cemento, lo accarezzò per assicurarsi della sua solidità, si portò una sigaretta alla bocca e l'accese. Prese i propri attrezzi e cominciò a lavorare la sua scultura.
L'uomo che aveva ucciso non era una persona malvagia e, nonostante la scelta di ucciderlo fosse classificabile quasi come una scelta casuale, in realtà un metro di giudizio per condannarlo a morte lo aveva usato.
La sua vittima era un pompiere, un uomo di coraggio, un uomo che salvava delle vite o che almeno ci provava quando un'emergenza incorreva. I pompieri sono impavidi, hanno fegato, sono il simbolo del coraggio anche quando una missione va a male e il fuoco divora chi doveva essere prelevato dalle fiamme. Non meritava assolutamente di essere seguito da un furgone, di essere tramortito con un bel colpo dietro alla nuca e di essere poi trascinato via senza che nessun occhio indiscreto lo notasse. Men meno si era in qualche modo guadagnato una fine simile, ovvero appeso a testa in giù su ganci da macello prima di essere sgozzato ancora vivo e cosciente. Ma allora perché lo aveva scelto ed eliminato atrocemente?
Ciccò la sigaretta nel posacenere a forma di fiore colorato, prima di rificcarsela in bocca, aspirare e continuare a scolpire. Stava procedendo bene il lavoro, l'omino maschile stava già prendendo forma e il suo volto e le sue spalle erano molto verosimili.
Il pompiere aveva preso parte allo spegnimento dell'incendio che anni prima aveva inghiottito casa sua. Aveva eseguito un lavoro impeccabile e aveva avuto un coraggio da vendere, tant'è che aveva tratto in salvo incolumi sia il suo cane che la sua gatta. Lui aveva pianto di gioia, quando quell'uomo glieli aveva riconsegnati spaventati tra le sue braccia. Per questo aveva scelto lui e per questo aveva prelevato il suo fegato per aggiungerlo come elemento chiave alla scultura che stava realizzando.
Se doveva realizzare una statuetta grossa una decina di centimetri e doveva renderla uguale a sé stesso, come un feticcio che identificasse la sua persona, era giusto che ammazzasse quel pompiere e prelevasse il suo coraggio. Così tutto sarebbe quadrato, no? Scolpendo il cemento con quel sangue e quel fegato, avrebbe potuto creare la forma migliore di sé stesso, ovvero l'uomo abile, coraggioso e impavido che era sempre stato.
Lui aveva sempre creduto che il mondo fosse composto da manifestazioni prive di senso, manifestazioni che però si rifanno a qualcosa che non esiste in questa realtà. Per questo l'umanità è così varia, perché si rifà a qualcosa di superiore che magari non è mai stata manifestata e che tra sé è tutta diversa. Se dunque quelle statuine dovevano essere simbolo di qualcos'altro, era necessario che si aggiungessero gli elementi in grado di specificarne l'identità sia fisica che spirituale.
Il cemento per l'umanità.
Il sangue per la spiritualità.
E il fegato per l'individualità.
Il trittico perfetto, la triade indissolubile: l'uomo, la realtà e l'aldilà.
La penultima sigaretta era stata spenta da un pezzo, quando finalmente completò la propria statuina. Non era convinto di quanto tempo fosse trascorso, ma si sentiva stanco e spossato come non gli accadeva da anni.
Si alzò in piedi e, posizionandosi perpendicolarmente sotto la lampadina, osservò la statuetta che rappresentava sé stesso.
Il colore era ancora a metà tra malva e vinaccia, ma la precisione con cui l'aveva realizzata era indiscutibile. Gli somigliava leggermente, ma il suo fisico e la sua pelata erano pressoché identiche, come anche il tatuaggio con scritto Tormento dietro al suo collo.
Poggiò il suo lavoro sul tavolo e raccolse le chiavi del furgone e della sua imbarcazione. Doveva far sparire i resti di quel corpo per sempre, ma prima si accese l'ultima e conclusiva sigaretta al sangue.

venerdì 11 gennaio 2019

#0 Sangue e Cemento: il martello

Osservando le sue mani lisce e curate mentre rollava le sue sigarette di tabacco, non si sarebbe mai detto che quei palmi e quelle dita appartenessero ad un muratore esperto. La grazia con cui muoveva le sue estremità e la delicatezza della pelle non avrebbero mai suggerito l'appartenenza di esse ad un tipo di lavoro così manuale, dunque realmente a volte non bisogna giudicare un libro dalla sua copertina.
Piegato su quel tavolo da lavoro con a ridosso tutti quegli attrezzi sparsi e sporchi e quell'unica lampadina ad illuminargli il cranio calvo e il corpo denudato, eccetto per le mutande, era interessante notare come si dedicava con meticolosità a quell'azione che ormai compiva da anni. I suoi occhi verdi erano rapidi e vispi e cercavano di controllare attentamente che non ci fosse nessuna piega nelle cartine appena leccate e chiuse, come se questo potesse influenzare o cambiare qualcosa nel fumare.
Ne completò 5 in tutto e senza alcuna forza, per non piegarle e per non romperle, le raccolse con una sola mano. Si alzò in piedi, deglutì e andò prima a controllare che la porta alla sua sinistra fosse chiusa per bene, prima di dirigersi verso quella di destra.
Spalancò l'uscio, accese la luce e guardò il corpo appeso al gancio a testa in giù. I due spuntoni acuminati infilzavano da una parte all'altra i tendini di Achille assicurando che il cadavere fosse ben sospeso da terra, così come viene fatto in macelleria con gli agnelli sfasciati e gli altri tipi di animali da macello. Giudicando dal colore bianchiccio e dal pallore mortale che ricopriva quasi ogni angolo della pelle di quell'uomo, quasi tutto il sangue doveva essere sgorgato fuori dalla sua gola squarciata, precipitando in quella gigantesca bacinella di plastica azzurra poggiata al suolo. Era cresciuto in campagna, quindi sapeva benissimo come si sgozza un maiale. Suo zio e suo padre gli avevano fatto praticare la sua prima incisione alla gola quando aveva appena 11 anni.
Si avvicinò al cadavere, ne annusò la putrefazione e poi si chinò verso il contenitore di plastica quasi del tutto pieno. Qualche gocciolina colava ancora. Prese una alla volta le sue sigarette e le intinse lievemente nel sangue su di un lato, appoggiandole poi a terra sul fianco non imbrattato cosicché si asciugassero.
Un corpo umano contiene circa 5 litri di sangue e fondamentalmente può essere riconosciuto da tutti in ogni ambito di studio come la migliore icona simbolica della vita. Più dell'acqua, più del vino, più dell'alcool e dell'urina. Ogni tipo di scienza o religione usa la metafora del sangue per identificare il carburante della vita, peccato che questo venga spesso dimenticato e quel liquido rosso venga associato alla morte, all'assassinio e alla paura, oltre che alla trasmissione di malattie virali.
Ma lui conosceva bene il sangue e le sue proprietà, ecco perché faceva ciò che stava facendo.
Mentre i suoi mini-bastoncini di tabacco si asciugavano, recuperò il suo coltello da macellaio. Si avvicinò al lato dell'addome di quell'uomo, che aveva brutalmente ammazzato, e constatò la presenza del rigor mortis. I suoi muscoli erano rigidi, ma quella lama lo avrebbe affettato a meraviglia.
Spostò il secchio e infilzò l'uomo dall'altezza dell'ombelico, tranciandolo man mano fino ad arrivare allo sterno. Il rumore della carne che veniva affettata era simile a quella di un quarto di bue sfasciato, non c'era assolutamente alcuna differenza. Gli occorreva un solo organo in quel frangente, quindi non sarebbe servito a niente cominciare una vera e propria autopsia, per questo era partito da sopra al pube. 
Allargò leggermente i lembi e cavò il fegato sporco di sangue e bile. Raggiunse uno dei tavoli presenti nella stanza illuminata dai neon e lo depositò nella sua centrifuga. Gli serviva liquido, quindi accese il macchinario e lo frullò totalmente.
Sebbene avesse già ucciso un uomo, avesse già chiuso le sigarette e centrifugato il fegato, il vero lavoro ancora doveva iniziare, per cui cominciò ad affrettarsi iniziando pure a fischiettare dalla felicità. Versò l'organo liquido nella bacinella e la accostò a quella più insolita che possedeva nell'angolo, la cui forma era un cubo perfetto. In quella vuota aggiunse acqua e leganti idraulici e mescolò con forza per ottenere la sua pasta cementizia, aggiunse a quel punto un bel po' di sangue e fegato liquido e completò il suo cemento dal colore compreso tra vinaccia e malva. Riempì quasi totalmente la bacinella cubica e poi la lasciò riposare... avrebbe dovuto solidificarsi completamente prima di poter cominciare a scolpirla.
Si riavvicinò al tavolo della centrifuga e prelevò il proprio gigantesco martello da carpentiere. Lo appoggiò a terra, fissando la parola TORMENTO incisa sul legno, la stessa che lui aveva inciso sulla propria pelle con un tatuaggio dietro al collo, e tirò giù il cadavere. Fare a pezzetti piccolissimi un essere umano è più semplice se tutte le ossa sono frantumate, ma a quanto pareva nessuno ci aveva mai pensato prima d'ora, o almeno nessuno di sua conoscenza. Inoltre, dopo aver rimosso tutto il sangue con uno sgozzamento, non c'era neanche troppo da pulire dopo, quindi era lecito domandarsi perché nessuno facesse mai una cosa del genere, ma forse non c'erano troppi stomaci forti in circolazione. Un corpo ridotto a pezzi dopo una frantumazione simile è più semplice da mettere in un sacchetto da gettare in un lago o nel mare e si può stare certi che non risalirà mai a galla.
Raccolse Tormento e lo soppesò, poi come una ghigliottina infida e malefica, cominciò a calarlo più e più volte sulle varie giunture e sulle varie parti del cadavere. Il rumore di carne e ossa che si spappolavano erano assordanti, ma questo non gli impedì di infliggere più di cinquanta colpi.
Passarono quasi dieci minuti, dopodiché prese una sigaretta da terra.
Appoggiò la testa sporca del martello al suolo e si resse con una mano sul suo manico.
E mentre il suo impasto di sangue e cemento si solidificava e la sua vittima giaceva come una poltiglia irriconoscibile, in attesa di essere tagliata a pezzi, lui si fumò per la prima volta una sigaretta al sangue.

lunedì 3 settembre 2018

#0 Dark and Ness: una promessa di sangue

Tre bambini fuoriuscirono correndo dal bosco in cui erano stati intrappolati per più di un'ora. Erano sudati, stanchi, impauriti e spaventosamente sporchi di sangue.
Il maschietto, Jeff, aveva le mani imbrattate di liquido rosso e non faceva altro che fissarsele mentre correva cercando di non inciampare. La bambina dai capelli biondi, Sarah, aveva soltanto il proprio vestitino rosa sporco, ma se ne fregava visto che era più importante fuggire, piuttosto che ricordare ciò che avevano appena fatto o pulirsi per nascondere le relative prove del misfatto.
La seconda bambina, quella dai capelli rossi, il cui nome era Betty, rideva mentre la fuga era in atto. Era quella più sporca di sangue tra i tre. Ce l'aveva tra i capelli, sul viso, sulle mani, sulle scarpe. Era quella che aveva cominciato tutto e che si era fatta aiutare nel completamento. Era stata senziente e cosciente per tutto il tempo, motivo per cui la sua paura interiore era minore rispetto a quella degli altri. Nei suoi occhi c'era un piccolo barlume di sadismo, ma forse erano soltanto l'adrenalina e la voglia di vendetta che aveva consumato.
Corsero per centinaia di metri nella radura aperta, vedendo uccellini volare via ed evitando di voltarsi indietro. Il fatto che il cielo fosse azzurro e senza nuvole pareva essere una condizione di contrappasso, considerando ciò che avevano commesso.
Si fermarono quasi al centro della piana, in un piccolo cerchio di terra bruciata con un falò spento e dei grossi massi messi lì come piccole panche di pietra naturale. Guardarono il bosco alle loro spalle ed un grido gutturale e minaccioso risuonò nell'aria, facendo scuotere violentemente gli alberi e i cespugli. Due occhi giganteschi e gialli apparvero tra alcuni tronchi a distanza di alcuni metri tra loro. Una zampa nerastra, larga almeno 3 metri e dagli artigli acuminati, apparve dal nulla, schiacciando come se niente fosse un arbusto ricco di spine. Lo sbuffo e il respiro di quell'essere immondo, dopo l'ululato, furono spettrali e raccapriccianti. I ragazzi non credevano ai propri occhi.
"Perché ci siamo fermati? E se continua ad inseguirci e ci raggiunge? Non dovremmo allontanarci di più?", chiese senza sosta Sarah, perdendosi nello sguardo maligno della bestia che li osservava.
"Non può uscire dal bosco, stai tranquilla", dichiarò Betty, mettendo una mano sporca di sangue sulla spalla della bambina spaventata.
"Lo credo anche io", confermò Jeff, deglutendo e distogliendo lo sguardo da quelle sfere gialle bramanti. Avevano rischiato grosso. Se li avesse presi, a quest'ora sarebbero tutti stati solo carne da macello.
"Dobbiamo promettere", esordì Betty.
"Promettere cosa?".
"Dobbiamo promette che non racconteremo a nessuno quello che abbiamo fatto nel bosco e che non diremo mai neanche come è fuoriuscito quel coso che ci ha inseguito".
Jeff e Sarah si guardarono terrorizzati. Entrambi erano innamorati di Betty ed era per questo che l'avevano aiutata a fare ciò di cui lei aveva strettamente bisogno. Il sentimento forte che provavano li aveva fatti inoltrare nel bosco, nonostante le assurde storie riguardanti il mostro che lo popolava e che si erano rivelate essere veritiere.
Avevano soltanto 6 anni ed era estate. Tra meno di un mese sarebbe iniziata la scuola e la ragazzina dai capelli rossi avrebbe cambiato città, lasciandoli da soli per sempre, con quell'emozione inespressa e quell'amore acerbo e fanciullesco.
Betty si passò sulle labbra il sangue di cui aveva le mani zuppe. Prese per mano i suoi due compagni e poi li baciò entrambi sulle labbra, sporcandoli di liquido rosso. Sarah e Jeff provarono un po' di ribrezzo, ma il fatto che la stessero baciando cancellò completamente dalla loro mente la presenza di quel sangue.
La promessa era suggellata, non avrebbero più potuto raccontare a nessuno le vicende di quel giorno.
"Ci rivedremo", annunciò Betty con risoluzione. Era l'unica che tra loro sembrava già essere adulta nonostante la sua giovinezza.
Fissarono tutti e tre il bosco, dove ormai non era più presente quell'essere gigantesco. Si presero per mano e si avviarono verso casa.
Quella fu l'ultima volta che Sarah e Jeff videro Betty, anche perché quando tantissimi anni dopo la rincontrarono... beh, lei non era più la stessa.

sabato 16 giugno 2018

#1 Kill Her: una setta ascetica

Le fiammelle traballanti delle candele rosse accese illuminavano un androne vuoto ricco di panche e di alcuni tappeti circolari. Un odore di chiuso si stanziava a ridosso delle pareti tinteggiate di beige, mescolandosi ad un ulteriore olezzo mefistofelico che proveniva dal cielo. Lungo il soffitto macchiato di muffa infatti, una fila di grosse croci di legno erano inchiodate orizzontalmente. Su di esse erano legati degli scheletri umani di diverso colore: alcuni biancastri, altri neri e ammuffiti, altri ancora sfoggiavano un giallo pallido e spento. Solo una croce conservava su di sé un corpo quanto meno fresco, ma anche quest'ultimo, posizionato grosso modo dove vi era l'entrata principale del luogo, era comunque in uno stadio di putrefazione avanzata. Era pressoché deceduto da quasi un anno circa.
La porta si spalancò, venendo anticipata da un brusio di voci sommesso, e dodici uomini entrarono all'interno dell'androne, posizionandosi giusto al centro e abbassando i propri sguardi al suolo.
Non indossavano tuniche, non indossavano cappucci, non portavano alcun cimelio religioso o alcuna reliquia. Eppure le parole che pronunciavano erano versetti in latino della bibbia, recitati a memoria. Stringevano le mani come quando si prega e gettavano i propri sguardi sottomessi verso il pavimento. Non erano preti però ed erano vestiti in modo del tutto casuale. Non avevano neanche un vangelo o un altro tipo di testo religioso e di certo non parevano intenzionati ad inginocchiarsi.
Dopo alcuni minuti, il silenzio prese il sopravvento e tutti rialzarono lo sguardo, puntandolo verso il mosaico di scheletri e croci che componeva il soffitto. Delle lacrime bagnarono alcuni dei volti ed uno di questi ruppe il cerchio formatosi, mettendosi al centro.
"Questa notte, amici miei, è cominciato finalmente il nostro piano. Questa notte, amici miei, i nostri dodici omicidi hanno riempito il vaso che da quasi un anno attendiamo di rovesciare e distruggere. Quello che ci è stato fatto deve essere ripagato e quello che deve essere ripagato va portato a compimento con rapidità. Dopo quasi 2000 anni, la nostra setta è stata affrontata e sbeffeggiata e noi non possiamo minimamente permettere che questo resti impunito. Dobbiamo inoltre riportare lo splendore e il vigore sulla nostra reputazione e sulla nostra supremazia, prima che il Secondo Millenario venga celebrato, altrimenti la discordia e il disonore faranno estinguere tutti noi. Perderemmo la dignità se non lo facessimo! Noi siamo esseri umani, siamo dei, siamo plasmatori del mondo e profeti della parola creatrice. In alto le nostre Armi di Distruzione, benediciamole prima del compimento del secondo passo!".
Ognuno degli uomini, dopo aver ascoltato le roche e carismatiche parole dell'uomo apparentemente leader, rimosse dalla cintola dei propri pantaloni un utensile casalingo. Qualcuno stringeva un martello, qualcun altro un forchettone per gli spaghetti e qualcun altro ancora una grattugia. Erano strumenti normali, acquistabili tranquillamente in qualsiasi supermercato o ferramenta. Vennero alzati al cielo stretti da entrambe le mani degli accoliti e, sotto la luce dei ceri, il sangue che li ricopriva tutti brillò lucido e focoso. Quelle erano le dodici armi contundenti dei delitti notturni.
"Abbiamo usato la nostra simbologia al meglio con le nostre potenti reliquie!", strillò improvvisamente il leader.
"Benediciamole!", risposero tutti in coro.
"Abbiamo lasciato i nostri significati, nascondendoli con quegli stupidi pentacoli e con quegli altri simboli privi di senso!".
"Benediciamoli!".
"Abbiamo suggerito una falsa pista a chi di dovere!".
"Benediciamola!".
"Abbiamo lasciato però inciso il nome di chi dovrà pagarla...", concluse sussurrando, ma venendo udito da tutti i presenti, i quali non fecero attendere la propria bofonchiata risposta.
"Selene... che tu sia maledetta...".
E il silenzio cadde di nuovo.

mercoledì 20 settembre 2017

#15 Le espiazioni: guardami sbranato

Si erano addormentati mano nella mano, felici e contenti. E si erano risvegliati con queste ultime ancora serrate. Magari in maniera più forte e violenta, ma sempre cinte tra loro.
Si erano assopiti in un luogo di una calura unica e confortante, con tanto di luci soffuse, profumi d'ambiente e coperte. E si erano risvegliati in una puzza tremenda ed un freddo micidiali. Le luci però erano ancora soffuse.
Si erano addormentati con entrambi un tatuaggio sull'avambraccio destro. Ora nessuno dei due lo possedeva più.
Si erano addormentati distesi su un letto, si erano risvegliati appesi a un gancio.
Sì, appesi a un gancio. Un gancio che gli si conficcava ad entrambi dietro alla schiena e si arpionava appena sotto le costole. Il sangue che era uscito era stato copioso, ma il freddo di quella cella frigorifera aveva interrotto il fiotto. Tuttavia la sensazione di dolore lungo la schiena e le ossa, come qualcosa che ti sta tirando via l'anima, era ancora vivida. E sembrava che lo sarebbe stata per sempre.
L'uomo era sveglio e la sua barba era ghiacciata. La donna dormiva e da un angolo della bocca le usciva un rivoletto di sangue marrone e secco. Avevano le dita incrociate e saldate insieme dal ghiaccio, ma i piedi di entrambi oscillavano immoti nel vuoto. Intorno a loro carcasse di animali scuoiati e puzza di carne marcia.
La ragazza si destò all'improvviso e cercò invano di agitarsi e capire cosa stava succedendo. Non riusciva ad urlare, come anche il suo fidanzato appeso accanto a lei. Erano impotenti ed algidi, neanche la più grande forza decisionale e di volontà avrebbe potuto aiutarli.
Da dietro gli animali morti e grondanti sangue, fuoriuscirono delle persone a loro sconosciute. Pallide, affamate, bramanti. Annusavano l'aria come cani in cerca di funghi e fissavano i due con ingordigia e appetito.
Aiutateci, cercarono entrambi di bofonchiare, senza nessun risultato.
Poi inaspettatamente, tutti gli furono addosso cominciando a sbranarli freddi ma vivi.

"Aiutare il prossimo è una delle più belle azioni che si possono fare", proruppe Solomon dopo un altro quarto d'ora d'incisione, accompagnato da un ulteriore racconto di vecchi clienti.
"Tuttavia nessuno si rende conto che il non farlo è un peccato veramente atroce e maligno. Non aiutare, mostrarsi indifferenti, agire da ignavi. Trasmette freddo e cattiveria verso chi invoca aiuto, ma soprattutto li fa sentire sbranati da lacerazioni esterne... che giungono fino al cuore e la mente".

sabato 26 agosto 2017

#1 Le espiazioni: annegamento da fumo

Solomon mi si avvicinò portando con sé un grosso raccoglitore pieno di fogli.
"Se non hai portato un'immagine con te, qua posso mostrarti varie versioni di cobra da poterti tatuare".
Afferrai il librone e mi parve che pesasse centinaia di chili. Me lo poggiai sulle gambe, sentendo le ossa e le articolazioni lamentarsi per il dolore. Cominciai a sentirmi confuso e leggermente rintontito, e questo mi portò a focalizzarmi su uno dei tattoo che l'uomo aveva sul bicipite destro.
"Cos'è quella nuvoletta spumosa e brumosa che hai? Sembra viva, lucida e irreale", domandai incuriosito e rapito dall'immagine.
"Sicuro di volerlo sapere?".
"Sì", mi ritrovai a rispondere senza neanche averne la consapevolezza.
"Beh...", cominciò lui.

Stu era un uomo di quarant'anni, pelato e con gli occhiali. Lavorava in ufficio senza sosta stressandosi dalla mattina alla sera e passava poco tempo con la propria famiglia. Non aveva mai fatto mancare niente ai suoi cari, se non la propria presenza. Era però giustificata quest'ultima e quindi nessuno osava rinfacciarglielo in qualche modo. Chi d'altronde avrebbe potuto?
Stu aveva un simpatico vizio, in fondo ogni uomo ha il proprio... c'è poco da fare. A Stu piaceva fumare, a Stu piaceva fumare un sacco. Consumava in effetti circa quaranta sigarette al giorno e non desiderava altro se non l'inizio di una nuova giornata per poterne fumare altre quaranta. Non ne poteva fare a meno, anche se gli effetti erano visibili, considerato l'affanno costante che si trascinava dietro da anni. 
Quando decise di farsi un tatuaggio, il nome di Solomon gli capitò davanti agli occhi per caso. Un post sponsorizzato su Facebook apparì dal nulla sulla home che saltuariamente faceva scorrere.
I tattoo di Solomon non si pagano, i tattoo di Solomon sono gratuiti. L'artista però esige un altro tipo di prezzo da te. Dovrai fronteggiare i tuoi peccati, ammetterli ed espiarli. Altrimenti i peccati espieranno te.
E così era corso a farsi un tatuaggio, una roba da poco, una roba scontata. Un piccolo laghetto al tramonto con un colibrì. Adorava i colibrì, era una delle specie animali che lo affascinava di più. La velocità del loro battito d'ali, il poter restare sospesi ad aspettare... ad osservare. Una velocità che lui non aveva più da molto tempo ormai, a causa di quel dannato affanno.
Quando uscì dallo shop con il disegno nero sul petto, si rese conto che in effetti non gli aveva fatto per niente male. Anzi, si sentiva stranamente bene, rilassato, come se si fosse tolto un peso dallo stomaco.
Decise di fumarsi una sigaretta, per cui si fermò sotto un albero e cavò il pacchetto dalla tasca. Ne prese una, l'avvicinò alla bocca e l'accese inspirando una profonda boccata. Il sapore che sentì fu però di sangue.
Sangue. Sangue. Sangue. Dentro di sé una fontana in piena sgorgava e riempiva gli anfratti. Emetteva e s'infiltrava in ogni orifizio ed insenatura. Il sangue si muoveva come mille serpenti e annegava qualsiasi cosa ci fosse da annegare. Il sapore metallico che sentiva nei polmoni era così intenso che sembrava avergli permeato il cervello. Tossì, tossì pesantemente, ritrovandosi un grumo di sangue sulla mano. Si spaventò ed alcune lacrime gli riempirono gli occhi. Cominciò a vedere rosso, perché quello che piangeva erano lacrime sangue.
Un'ombra si stagliò all'orizzonte, sfocata ed indistinta. Lo fissava accecandolo con il tramonto alle sue spalle e restava in attesa come un colibrì pensante. Stu si strappò la camicia e notò che il suo tatuaggio non c'era più, era svanito. Ma perché? Come mai?
Prima che potesse rispondere a tutto questo, il sangue interiore aumentò e il suo tossire anche. E Stu svanì come una nuvoletta di fumo perché non aveva ascoltato le parole di Solomon.
Non aveva espiato il peccato che avrebbe dovuto.

giovedì 24 agosto 2017

#0 Le espiazioni: tatuarsi un'anima

Andai a fare un tatuaggio da un uomo chiamato Solomon, poiché tutti i miei amici avevano già usufruito dei suoi servigi. Era un uomo riservato, misterioso e ricoperto di tattoo dalla testa ai piedi. Il suo stile non era uno stile comune. Al di là dell'assurdo realismo che imprimeva nelle sue creazioni, i tatuaggi che sfoggiava sul proprio corpo erano impressionanti e spaventosi. Un miscuglio caotico di qualcosa che nessuno avrebbe mai potuto capire.
Mi presentai all'appuntamento circa un'ora prima, fermandomi lungo il marciapiede a fumare una sigaretta. Poche persone camminavano per la via, mentre il sole si attardava a raggiungere l'orizzonte. Era pomeriggio inoltrato e un cielo limpido sovrastava quelle strade malfamate.
Entrai nel negozio soltanto dopo aver calpestato la cicca con il tacco della scarpa e comunicai alla ragazza della reception che avevo prenotato una seduta. Lei mi disse che potevo tranquillamente entrare in stanza, visto che non c'erano altri clienti e Solomon era all'opera su sé stesso in attesa di qualcuno.
Varcai la soglia senza pensarci più di tanto e respirai lo stantio odore di pareti non arieggiate ed inchiostro fresco. Mi girò la testa e mi appoggiai alla parete per un secondo. Solomon era lì, a torso nudo, piegato su una sedia si percorreva il ginocchio con l'ago di una macchinetta per tatuaggi, calcando quello che forse era un vecchio disegno, anche se  non avrei mai potuto essere sicuro circa il fatto che fosse o meno un tattoo nuovo.
"Accomodati", mi ordinò senza distrarsi dalla sua operazione.
"Cosa si sta tatuando, se posso chiedere?", domandai, cercando di scorgere un senso a tutte quelle linee e quegli arabeschi che gli circondavano il ginocchio e la gamba. Da solo non ci riuscivo minimamente, anche perché l'inchiostro era strano e troppo irreale. Quei disegni erano lucidi e pulsanti, come se racchiudessero qualcosa sotto la pelle. Erano gonfi come ferite, gonfi come ogni tattoo appena fatto.
"Un'anima", rispose secco, continuando il proprio lavoro.
Lo fissai interdetto, pensando a come si potesse disegnare un'anima, per cui decisi di aspettare e vedere il risultato finale.
"Cosa vuoi tatuarti?".
"Un cobra".
"Di che grandezza?".
"Una quindicina di centimetri".
"Dove?".
"Sul braccio destro".
"Perfetto" e si alzò in piedi smettendo di disegnare su di sé. Il risultato finale era una sfera nera, lucida e gonfia che pulsava e perdeva un po' di sangue. Mi fece impressione fissarla, ma non potei farne a meno.
"Come mai i suoi tatuaggi sono diversi da quelli che vedo sulle altre persone? Usa una tecnica particolare e sconosciuta per sé stesso?".
"No, non è così complesso. I miei tattoo, a differenza di quelli degli altri, non guariscono. Non guariscono mai, affinché io possa sempre ricordarmi di loro e della loro presenza", spiegò sorridendo in maniera macabra e facendomi rabbrividire.
"Come sarebbe a dire?", domandai spaesato e confuso.
"Io non prendo soldi per tatuare le persone. Chi vuole uno dei miei lavori, deve espiare poi i propri peccati. Chi non è avvezzo a tutto questo, muore ucciso dalle proprie colpe e io sono costretto a tatuarmi per sempre e dolorosamente la sua anima. Un tatto inguaribile che non permette a me di dimenticare la vita che ho stroncato".
E a quel punto impallidii, venendo stritolato dalla consapevolezza che quell'uomo di nome Solomon forse un uomo non era.

giovedì 6 luglio 2017

#11 Savior: gatti

Viveva da solo praticamente da sempre, e mai se n'era lamentato con qualcuno.
Era figlio unico e i suoi, che vivevano lontanissimi dalla propria famiglia, erano morti quando era ancora un ragazzino. Nessun parente era andato a prenderlo, nessuno si era fatto carico di lui. La responsabilità sarebbe stata troppo grande. Con l'aiuto dell'eredità dei suoi parenti defunti aveva vissuto ed era cresciuto in un istituto. Raggiunta la maggiore età era ritornato a casa, cercando di impugnare il proprio destino.
"Blinky, vieni! Sto riempiendo la ciotolina! Anche voi tre, venite su!", annunciò ai suoi quattro animaletti pelosi, agitando la scatola dei croccantini nei pressi delle scodelle di plastica.
I miagolii si alzarono incessanti e lui fu sommerso dalle fusa e dai peli di ognuno di essi. Amava i suoi gatti, erano l'unica reale compagnia che aveva.
Con l'immensa fortuna economica avuta dai genitori, piazzava degli investimenti in borsa. Utilizzava siti di acquisto e vendita di prodotti online, per comprare le cose, e chiamava il supermercato vicino per farsi consegnare la spesa. Non usciva mai, non vedeva nessuno, non aveva amici reali oltre ai gatti.
Ultimamente però capitava una cosa molto strana all'interno della sua abitazione. Avvertiva dei rumori, percepiva degli sguardi strani e i suoi gatti erano molto più tesi e reattivi del solito. Teneva sempre le luci accese, ma continuavano a fulminarsi. Tant'è che aveva cominciato ad accumularne un bel po' per non restarne sprovvisto.
I suoi gatti cominciarono a portare cose morte in casa, di punto in bianco visto che mai avevano fatto una cosa simile. Topolini, lucertole, scarafaggi. Un giorno gli portarono addirittura un dito umano, ma non gli diede troppo peso.
Quando dopo due settimane di totale isolamento, il postino bussò per recapitargli una missiva, la porta era aperta.
C'era una puzza tremenda, rivoltante. Senza nessun apparente motivo, entrò nell'abitazione. Quello che vide fu schifoso quanto spaventoso.
I gatti giocavano tra loro, lanciandosi una grossa palla con le zampe. Correvano avanti e indietro e la sfera sporcava tutta la pavimentazione. Era una testa. Una testa decapitata e insanguinata.
Con loro c'era anche il padrone di casa, decapitato ovviamente. L'unica cosa era che stava giocando anche lui, producendo uno strano miagolio dal collo esposto. Era diventato come loro. Era diventato loro. Era un gatto.
Quell'uomo era morto da sempre, solo che mai se n'era reso conto.

"Perché ci hai raccontato questa storia?", chiese Lizzy al parassita.
"Perché anche i gatti sono mietitori".

sabato 24 giugno 2017

#1 Savior: piscina di sangue

Quando si sedette a bordo piscina, per riprendere un po' fiato dopo tutte quelle vasche, si accorse che quasi la metà delle ragazze era già andata a fare la doccia.
Si sentiva sfinita, distrutta fino allo stremo. Stava cominciando ad odiare quella faticosa acqua che puzzava di cloro.
La sua allenatrice le spingeva al massimo, le spingeva oltre i loro limiti, dava loro il sogno di una impossibile olimpiade. A sedici anni, senza gare né allenamenti mirati, era ormai improbabile raggiungere quei livelli e finire in quella tipologia di competizioni.
Si alzò in piedi, lasciando che le mattonelle sotto il suo sedere si bagnassero di più e si diresse verso gli spogliatoi, cercando di non scivolare. Non aveva portato le ciabatte, come una stupida le aveva lasciate in borsa.
"Signorina!", disse una voce alle sue spalle. "Non si cammina lungo questa zona senza niente ai piedi! Potrebbe farsi male e gettare acqua ovunque!".
Si voltò per scusarsi, per giustificare quel suo comportamento, ma quando si girò vide un uomo mai incontrato prima. Doveva essere il nuovo istruttore delle classi maschili, un uomo che lei non aveva mai visto.
Era in quei momenti che Lizzy odiava il suo dono, quello di poter vedere oltre, di poter vedere tutto senza filtri. Sapere ogni cosa di una persona senza chiedere il permesso né averne la voglia.
Lo vide sudato a guardare la televisione con tantissime bottiglie di birra vuote sul divano, lo vide scrutare la moglie che piangeva facendo i piatti, lo vide costringerla a scopare, lo vide rompere una sedia soltanto perché la sua squadra aveva perso una partita. Lo vide tossire, lo vide bere. Lo vide guidare e andare a lavoro. Vide quando da piccolo suo padre lo picchiava perché gli piaceva stare in stanza nudo a fissarsi allo specchio, lo vide al mare mentre accarezzava sua figlia. Vide quando abbastanza cresciuto rispose a suo padre, lo picchiò e andò via di casa senza mai più ritornare. Lo vide piangere, lo vide fumare. Ma quello che vide per ultimo, fu sua figlia legata in cantina come un animale. Segregata, frustata e piangente. Adagiata a terra a mangiare in una ciotola, e questo solo perché aveva risposto male.
"Ha capito quello che ho det..." e con un pugno dritto sul naso Lizzy lo buttò a terra, facendogli perdere i sensi.
Una rabbia anormale le era salita in corpo, cruda e selvaggia come mai lo era stata prima. Quell'uomo era una bestia, uno schifoso porco e un lurido padre. Un uomo che aveva sofferto ed aveva fatto sì che la sofferenza fosse il suo comportamento per il futuro.
Lizzy non lo poteva tollerare.
Ma adesso, con lui a terra e con il naso rotto, cosa diamine doveva fare?
Gli diede comunque un calcio nelle palle prima.

venerdì 2 giugno 2017

#13 Horror Club: l'uomo che mangiava i vestiti

Lavorava ormai da anni in quella gigantesca lavanderia industriale, tant'è che mancava poco alla sua promozione a caporeparto. Non era un mestiere molto faticoso, anche perché con l'avvento delle nuove tecnologie molti ruoli della catena di montaggio erano pressoché sostituiti dai macchinari. Erano poche le mansioni rimaste e spesso queste ultime non erano altro che tener sotto controllo il funzionamento di quelle braccia meccaniche. A lui piaceva quel lavoro, non gli dava neanche troppi problemi ... forse.
Luca ad esempio era uno di quei dipendenti che non aveva mai potuto sopportare. Un ragazzo schivo, timido, preoccupato, uno di quelli che non cerca di stringere rapporti con nessuno, ma che poi diventa una sanguisuga con l'unico essere umano a cui aveva furtivamente detto ciao. Luca aveva detto a lui ciao e Luca era diventato la sua ignobile sanguisuga. Lo perseguitava, lo seguiva, gli offriva il pranzo. A volte gli chiedeva anche come stesse sua moglie, donna che non aveva ma incontrato. Altre volte invece non lo degnava di uno sguardo ed in particolare accadeva nei giorni in cui sembrava depresso. Si presentava a lavoro abbattuto e pallido come un cencio, si dedicava con pigrizia alle sue mansioni e restava con lo sguardo nel vuoto per ore, estraniandosi dal mondo. Questo era un aspetto che lo inquietava. Ciò che però lo spaventò di più accadde un giorno in cui entrambi restarono per degli straordinari notturni.
Erano soli, avevano una mole esorbitante di lenzuola da lavare e l'unico che riusciva ad usare i macchinari più grossi non era Luca. Questo significava che avrebbero dovuto lavorare separati, uno in una stanza e l'altro in un'altra. Si trattava di alcune ore, ma il suo collega stava attraversando una di quelle giornate di depressione. Alle tre passate infatti andò a vedere come se la stava cavando e quello che vi si parò dinanzi fu impensabile.
Luca era carponi su uno dei tavoli allestito per il piegamento dei tessuti più grandi. Contorto in una posizione animalesca mangiava voracemente le lenzuola. Le addentava come se fossero prede succulente, come se fossero gazzelle divorate da un leone. I suoi occhi non avevano pupille e dalla bocca gli colava sia sangue che bava bianca. I suoi denti producevano un rumore grottesco e neanche riusciva ad immaginare come potessero lacerare le lenzuola fino ad ingoiarle. Le mani stringevano così forte quelle stoffe che parevano indemoniate. Il suo ventre era gonfio e di un colore violaceo. C'era una puzza di morte indescrivibile.
Cosa cazzo stava succedendo? Cosa diamine era preso a quell'uomo? Stava mangiando quelle lenzuola come se fossero pezzi di carne gigante! Era indemoniato? Era posseduto? Era fatto? Era impazzito?
Non cercò di farlo rinsavire per due motivi molto semplici. Il primo era legato al fatto che fosse letteralmente terrorizzato dalla situazione.
Il secondo era legato al fatto che non c'erano soltanto le lenzuola sul grosso tavolo su cui era carponi Luca, no. In un angolo, mordicchiati e appena appena lacerati, c'erano dei vestitini di sua moglie e alcuni maglioni di suo figlio.
Fino a che punto Luca era diventato la sua sanguisuga?
Non lo voleva sapere ... preferì prendere le chiavi di casa e andare a controllare come stesse la sua famiglia.

Raccontò la sua macabra storia con la sua voce squillante, cercando di dare un'intonazione adeguata ad ogni passo. Ci fece rabbrividire, sembrò essere come un doppiatore dell'orrore fuoriuscito dai tenebri fotogrammi di un film maledetto.
Controllai se i miei vestiti avessero dei morsi per puro riflesso incondizionato, quella scena era stata rivoltante e spaventosa allo stesso tempo.
Toccava a me ora, ma non avevo idea di cosa dover narrare. L'ultima storia da me detta era fuoriuscita automatica dalle mie labbra, tant'è vero che da solo mi ero spaventato. Non l'avevo inventata né pensata, era uscita dalle mie labbra e basta.
Adesso però ero vuoto, vacante, dissacrato. Toccava a me e non avevo storie dell'orrore. 
Venni salvato dall'uomo con la cicatrice, il quale alzandosi in piedi dichiarò conclusa quella prima seduta. Potevamo tornare a casa, potevamo riposare. Ci saremmo visti il pomeriggio seguente, allo stesso orario, allo stesso posto. Non dovevamo preoccuparci di niente, aveva tantissime novità di cui svelarci i misteri...

martedì 30 maggio 2017

#11 Horror Club: l'amante addolorata

Non voglio farle delle domande indiscrete, ma lei ha notato qualcosa di strano nel suo ragazzo in questo periodo?
Qualcosa di strano? Del tipo?
Non so, nervosismo, irrequietezza. Magari delle manifestazioni di comportamenti violenti.
Stesa di fianco a lui ripensava alle domande che il detective le aveva posto. Lui dormiva beatamente al suo fianco, mostrandole una schiena bianca e pallida con alcuni nei nerastri. Respirava sommessamente. Le luci blu psichedeliche della stanza stonavano più dell'erba che avevano fumato. Era la prima volta che si rendeva conto dell'assenza delle finestre. Il fumo come faceva ad evadere da quel posto se la porta la tenevano sempre ben chiusa?
No, è sempre stato lo stesso da quando ci siamo messi insieme. Lavora, passiamo del tempo insieme, usciamo, scopiamo. Le solite cose. Non succede mai niente di nuovo o di diverso nella nostra vita.
Ne è sicura? Non gli ha mai visto addosso dei segni di colluttazione? O del sangue magari? In casa sua ha mai visto un tubo di ferro? Un tubo da lavandino?
No, mai visto niente di simile. Penso che avrei chiamato la polizia se mai fossi incappata in qualche stronzata del genere.
Eppure il tubo lui lo aveva sempre con sé, non se ne separava mai. Quando non uscivano, lo teneva poggiato su di un lato del letto, a portata di mano. Se invece abbandonavano la stanza, lo metteva sul proprio cuscino. Il tubo da lavandino era il suo orologio da polso. Lo lucidava, lo puliva, lo lavava. A volte comprava della vernice per pitturarne i punti in cui aveva preso qualche colpo violento. Lei non sapeva il motivo per cui fosse inseparabile da quell'oggetto, non sapeva neanche per cosa lo usava. Spesso era capitato che lo adoperasse per scoparla, come un vibratore manuale. La lubrificava e piano piano glielo spingeva dentro. Quella sensazione di freddo e di durezza le piaceva. Lui riusciva a farlo muovere con delicatezza su e giù, dentro e fuori. E la faceva venire piacevolmente. Non c'era niente di strano. Forse morboso, ma non violento o strano.
Se dovesse accadere qualcosa o se dovesse notare una qualsiasi anomalia sospettosa, la prego di chiamarmi. Non voglio allarmarla, ma forse lei convive con uno spietato serial killer.
Okay, vi terrò aggiornati.
Aveva tenuto quel biglietto da visita, senza farne parola con lui. Non voleva allarmarlo, non voleva che si spaventasse. Lei non aveva detto niente di compromettente, se mai ci fosse stato qualcosa da compromettere.
Si svegliò di soprassalto, afferrando al volo il tubo da lavandino come per difendersi da un nemico. Non c'era nessuno tranne la sua amante. La fissò con dolcezza. Lei non sapeva che lui era a conoscenza di quell'incontro con la polizia, di quell'incontro col detective che gli stava alle calcagna. La bacio sulle labbra, le leccò il collo e con malizia le passò la spranga sulle gambe. Le sfilò le mutandine, le fece allargare le cosce e come di consueto le infilò il tubo di ferro nella vagina, placidamente, lussuriosamente.
"Un testimone in meno è una bocca mancante che può confessare" e con un violento scattò spinse il tubo dentro, arrivando a perforarle addirittura lo stomaco. Il sangue addolorato riempì l'intero letto, più delle urla stesse.

L'uomo con la cicatrice bluastra si guardò intorno una volta terminata la sua terza storia. Sembrava toccato, commosso dalle sue stesse parole. Il fatto che narrasse racconti biografici stava prendendo più consistenza che mai, difatti pareva che avesse chiaramente esposto l'omicidio della sua donna. Era lui il serial killer del tubo da lavandino? Quante persone aveva ucciso prima di entrare in quella stanza con noi? Era lui il fondatore di questo Club? Perché darci le pillole?
Considerando poi gli effettivi poteri che stavamo acquistando e le ultime storie raccontate, sovvenivano anche altri quesiti. Aveva raccontato questa storia poiché già accaduta oppure lo aveva fatto per uccidere narrativamente la sua ragazza cosicché non parlasse col detective? Non aveva preso tablet né fatto dirette, come potevamo mai capire che fine aveva fatto quella donna? Il detective sarebbe morto nei prossimi racconti o sarebbe riuscito a fermare il serial killer del tubo?
La ragazza dell'eterocromia si alzò in piedi...

domenica 21 maggio 2017

#3 Horror Club: videogame

Comprai quel videogame horror su una bancarella abusiva per strada. Costava soltanto 92 centesimi e la sua copertina era veramente inquietante. Nera, macchiata da sangue scuro e rappreso, occhi infuocati che ti scrutavano dal buio, denti aguzzi con della bava verde. Non c'era scritto il nome del gioco e neanche chi fossero i produttori e i creatori. Essendo un esperto di quest'ultimi, trovai strano il fatto di ignorare completamente l'esistenza di quel prodotto. Pagai dunque più per curiosità che altro e il venditore fu grato per il mio acquisto. Chissà che razza di indie mi sarei ritrovato per le mani.
Tornai a casa, accesi il mio pc ed inserii il disco. Durante il tempo d'installazione chiusi le tende della mia finestra e spensi le luci. Attaccai lo spinotto delle mie cuffie e mi portai dinanzi allo schermo.
BENVENUTO. SE PER CASO TU FOSSI UNA PERSONA FACILMENTE IMPRESSIONABILE, FARESTI MEGLIO A SPEGNERE QUESTO MALEDETTO COMPUTER. SAREBBE COMUNQUE TARDI, MA POTRESTI SALVARE QUALCOSA DI TE STESSO.
Cominciavamo bene. Quella scritta mi incuriosiva tremendamente. A volte gli indie, senza nessun tipo di limitazione, contengono delle genialità che passano inosservate ai molti.
SE SEI ANCORA QUI, VUOL DIRE CHE ANCORA DEVI COMPRENDERE A PIENO LA TUA PAZZIA.
E poi il gioco partì, inaspettatamente, in maniera diretta, senza dover passare per schermate di avvio in cui poter settare opzioni, difficoltà, salvataggi, caricamenti. Il personaggio era alto e snello e indossava dei vestiti anonimi, stile casual. Si trovava in piedi in una strada di città completamente deserta, in prossimità di un vicoletto. Avanzai, guardandomi prima intorno nel caso in cui apparisse qualcosa o qualcuno alle mie spalle, e svoltai nella piccola stradina. C'era una bancarella abusiva, con un uomo identico a quello da cui avevo comprato il gioco. Attorno a lui vigeva un'aura bluastra, maligna, che mi invitava a combattere. Mi avvicinai con lentezza, rabbrividendo nella realtà. La bancarella non aveva nient'altro che teste esposte. Tantissime teste, un'infinità! L'uomo non aveva pupille e rideva perdendo bava verdastra, senza accorgersi di quanto sangue colasse a terra inzuppandogli i piedi. Sentivo la puzza di morte, anche davanti al pc.
E poi il gioco mi spense la mente e cominciò a giocare con me.
Non ricordo molto di quello che accadde. Né all'interno del gioco né all'interno della realtà.
Uccisi il venditore, gli tagliai la testa e con le mani sporche del suo sangue rimisi il gioco nella custodia, lasciando che quel liquido rosso si seccasse su di essa.
Il giorno dopo ero nel vicolo e vendevo la copia del gioco abusivamente, così ... a 93 centesimi ...

Fui io a raccontare quella storia, dopo che la ragazza con l'eterocromia si era riposizionata sulla poltrona. Mi era parso che fino a quel momento ognuno di essi avesse raccontato una storia vera, esponendo poi una parte di sé alla visione dell'altro. L'uomo dalla cicatrice blu aveva bevuto il sangue di quell'essere superiore e buono? La ragazza aveva sequestrato una giovane per soldi? Cos'era stato quel tic che le aveva fatto schioccare il collo? E poi c'entrava con la sua stranissima eterocromia?
Raccontai quella storia perché non volevo parlare delle mie cicatrici sulla schiena (#24 Paure dell'uomo: Bestia), cercando però di tenere alto il livello di tensione. Eravamo lì per una ragione, eravamo lì per regalare il vero orrore al mondo. Quelle persone mi spaventavano, dunque cercavo di non espormi troppo sebbene volessi far parte attivamente del gruppo. E poi, a dirla tutta, le mie mani sembravano ancora sporche del sangue di quel venditore abusivo, quindi perché non parlarne?

giovedì 18 maggio 2017

#1 Horror Club: i veri peccati

La tv era accesa e il suo formicolio crepitante rischiarava lievemente il buio della stanza. Stringevo tra le dita un bicchiere di scotch e fissavo sul tavolinetto una bottiglia di plastica con del liquido blu.
Nella vita ci focalizziamo sulle nostre azioni, come nessun'altra specie animale. Pensiamo a cosa vogliamo fare, a cosa dobbiamo fare, a cosa desideriamo assolutamente fare. In tutto questo ci lasciamo limitare da quelli che consideriamo peccati, quelle azioni che non andrebbero commesse poiché malvagie o punibili dalla legge. C'è chi se ne frega e persiste, e c'è chi si ferma e desiste. Ma quali sono questi peccati? Quali sono i veri peccati? Uccidere? Rubare? Stuprare? Quali sono i peggiori? Quali sono i veri?
In quel bosco, quella mattina, avevamo trovato qualcosa che nessuno mai si sarebbe aspettato di vedere. In quella passeggiata nella natura avevamo sentito all'improvviso un pianto di un bambino, un pianto strano, innocente, distorto. Un vagito soave, un vagito tonante. Così ci eravamo fermati, avevamo teso le orecchie e avevamo frugato tra i cespugli. Un bambino. Piccolissimo. Candido. Con due piccole protuberanze di carne sulle scapole. Lì per lì, pensammo fosse tutto uno scherzo, magari un prank organizzato da qualche canale youtube. Ci guardammo intorno, ma non c'era nessuno. Cos'era un angelo? Un incrocio tra l'uomo e un uccello? Il risultato di qualche esperimento? Un messia? Se ce lo fossimo tenuto, quante persone ci avrebbero creduto? Quante tv avrebbero voluto specularci sopra? La verità è che nel mondo ogni tanto appare qualcosa di buono, ma questo posto marcio non è mai pronto per accoglierlo.
Prendemmo i coltelli, quelli che avevamo portato per abbattere i rami che ci avrebbero ostacolato il cammino, e senza pensarci due volte recidemmo le piccole protuberanze del bambino. Nessuno di noi si aspettava che cominciasse a sgorgare sangue blu. Nessuno di noi si aspettava che l'urlo agghiacciante del pargolo cominciasse ad incendiare gli alberi vicino. Ci spaventammo, le protuberanze erano vere. Il bambino strillava dolore infuocato.
Gli piantammo un coltello nel petto. Per zittirlo. Per metterlo a tacere. Per non rischiare che il suo pianto uccidesse noi e distruggesse tutto. Con prontezza usammo le nostre bottiglie d'acqua per raccogliere tutto il sangue possibile, poi gettammo il corpo nel fuoco. Una fiamma blu si alzò nel cielo e il cadavere minuto si polverizzò all'istante. Non era umano. Forse neanche divino o demonico. Era qualcosa di oltre. Qualcosa di buono. Qualcosa di inspiegabile.
Tornammo a casa, ognuno con la sua porzione di sangue blu.
Sul tavolo c'era la mia. Cosa ne dovevamo fare? Venderla? Farla analizzare? Le leggende hanno migliaia di possibilità riguardo l'utilizzo del sangue, per cui io pensai ad una di questa. E senza capire la grandezza del mio peccato, bevvi il sangue blu...

Quando finì di raccontare la sua storia, il primo scrittore nero poggiò di nuovo la candela sul tavolo, andandosi poi a sedere su una poltrona libera. Noi tremavamo guardandolo, la sua cicatrice blu sulla guancia brillava iridescente...

martedì 16 maggio 2017

#30 Paure dell'uomo: alluce del piede

Rientrato a casa dalla scuola, ricordo che mi facevano malissimo i piedi. Un dolore atroce, allucinante, manco avessi trascorso le sei ore scolastiche senza sedermi.
Mia madre ancora doveva rientrare da lavoro e mio padre sarebbe rincasato direttamente per l'ora di cena. Per cui andai in bagno, calciai via le scarpe e i calzini e mi sedetti sulla tazza. Mi sentivo sfinito, afflosciato, e quel giorno non avevamo nemmeno fatto educazione fisica.
Stavo proprio per alzarmi in piedi, dopo aver terminato il mio bisogno, che notai una piccola macchia nera sul bordo di un'unghia. Si trattava dell'alluce del piede sinistro, dove avevo un'unghia non troppo lunga. Inizialmente pensai che fosse dello sporco ma poi mi accorsi che avevo indossato calzini azzurri, e la macchia era nera.
Non ci badai più di tanto comunque, infatti uscii dal bagno portandomi dietro il tagliaunghie per liberarmi del misfatto. Mi accomodai sul divano, tirai su il piede e lo poggiai sull'altra gamba. Cercai di togliere con le dita lo sporco, ma non veniva via. Era come inchiostro, come se la mia unghia fosse pitturata dal basso.
Non ti tagliare le unghie troppo sotto che poi ti fanno male le dita!
Mia madre lo diceva sempre e puntualmente tagliavo le unghie molto poco per non rischiare. Quella volta però dovevo tagliare un po' più sopra, altrimenti non avrei eliminato tutto lo sporco. Arrivai alla giusta altezza con le lame e strinsi. L'unghia fu tagliata e cadde a terra. Problema risolto. Ne restava solo un po', sporgente da un piccolo frammento irregolare di unghia. L'afferrai con due dita e tirai. Mi si staccò il dito del piede.
Sì, proprio così. Mi si staccò il dito. Cadde via, come se fosse stato incastrato alla giuntura e non unito. Come un pezzo di lego viene separato dall'altro, il mio dito venne via. Lo vidi ruzzolare a terra con un rumore flaccido, senza sporcare. Non usciva sangue, non sentivo dolore. Mi si era staccato il dito, tanto che riuscivo a vederne i filamenti bianchi dei tendini e quelli violacei delle vene, oltre che la cartilagine e l'osso, ma non usciva sangue. Il dito caduto in terra sembrava tutt'altro che cadaverico o in cancrena. Si era semplicemente staccato.
Urlai dallo spavento, e maledissi me stesso per non essermi tenuto quella macchia sotto l'unghia. Cosa mi era saltato in mente? Cosa avevo intenzione di fare? Mia madre mi avrebbe ucciso! Mi ero staccato il dito del piede! Non mi avrebbe mai perdonato per aver fatto una cosa simile! Ma poi ... come era stato possibile? Come glielo avrei giustificato? Come glielo avrei spiegato? Cosa avrei detto alle persone e a tutti? Ho perso il dito? Si è staccato mentre lo pulivo! Chi mi avrebbe mai creduto?
Cominciai a respirare a fatica, venendo colpito da forti palpitazioni e da una tremenda tachicardia. Mi sentivo morire. Sudavo freddo. Sudavo caldo. Avevo i capogiri. Cosa dovevo fare? Chiamare mamma? Chiamare un'ambulanza? Prendere il dito da terra e riattaccarlo?
Lo guardavo a terra spaventatissimo, come se fosse un occhio dalla sclera rossa e la pupilla bianca. Sembrava osservarmi, scrutarmi, giudicarmi. Sembrava essere la prova dei miei errori. Quando quella volta ho trasgredito, quando quell'altra volta ho esagerato, quando quell'unica volta ho reagito male. Queste cose erano racchiuse in quel dito, in quella macchia nera che si era divisa da me.
Bussarono all'improvviso alla porta ed io, per la paura, svenni sul colpo.
Quando mi risvegliai, mia madre era in cucina ed io ero sul divano. Avevo ancora il dito attaccato al piede, ma sull'unghia c'era la macchia nera...