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martedì 30 gennaio 2018

#0 Haters: instilla l'odio e manipolerai la morte

Immagine a cura di Tony Di Masi
Il controllo.
Se c'è una cosa che nella mia vita ha sempre avuto una grande influenza nei miei confronti, quello è proprio il controllo. In ogni fase della mia esistenza ha rivestito un ruolo importante e in ogni fase della mia vita ha determinato le mie più grandi scelte.
È cominciato tutto quand'ero bambino, all'età circa di 8 anni. Ero un ragazzo goffo e privo di coordinazione che veniva sempre ripreso dai genitori, dai professori e dagli amici per la pochissima praticità che dimostravo. Spingevo una sedia per spostarla? Cadeva.
Trascinavo un filo a terra? Si incagliava sotto le porte.
Mettevo a posto le posate? Il contenitore cascava.
Appoggiavo un bicchiere sul tavolo? Si rovesciava.
Non riuscivo mai ad avere il controllo dei movimenti o delle cose che eventualmente muovevo io. Tutto accadeva così distante da me che non riuscivo a calcolare al meglio spostamenti e assestamenti. Questo mi impediva qualsiasi tipo di coordinazione.
Decisi allora di allenarmi, di calcolare fisicamente quello che mi succedeva intorno in modo tale da muovermi alla perfezione in ogni semplice situazione. Riuscii ad elaborare un metodo di calcolo rapido così da poter coordinare al meglio i miei movimenti e risultare totalmente efficace in ogni cosa che facevo. Assunsi il controllo di tutto quello che eseguivo e facevo eseguire alle cose che le mie dita sfioravano. Raggiunsi un livello di perfezione nei movimenti così alto e perfetto, che non ho mai più commesso un errore in questo senso.
Quando andai alle superiori optai per un indirizzo informatico perché adoravo i computer e i videogame. I processori e i vari CPU agivano in maniera così controllata e così calcolatrice che quasi li veneravo. Erano perfetti. Non sbagliavano nulla. Con i giusti input, queste macchine calcolatrici erano pressoché infallibili ed efficienti. Volevo proprio somigliare a loro, in fin dei conti.
Mi diplomai con il massimo dei voti e decisi di proseguire gli studi universitari, nel medesimo branca. Fu qui che cominciai ad addentrarmi nel reale mondo informatico, quello fatto di codici, algoritmi e calcoli letterali. Era tutto così criptico e così complesso che decisi di prenderne il controllo ed iniziai ad elaborare i miei personali codici, i miei personali algoritmi e sviluppai numerosi software.
Ero così portato per la materia e per il controllo che essa poteva fornire sul mondo, che diventare hacker fu solo una conseguenza.
Da adulto cominciai infatti a lavorare per alcune aziende come supporter tecnico per problemi informatici. Un lavoro stupido e noioso, ma ben pagato e con orari molto flessibili.
Affittai un monolocale da solo e mi trasferii in città, lavorando per un'azienda che si trovava lì vicino.
Fu a quel punto che presi la mia terza decisione più segnante. Se il controllo di me e di quello che ho intorno mi ha portato all'efficienza nei movimenti e se il controllo dei computer mi ha condotto alla manipolazione della rete e al controllo assoluto di quello che avviene nel mondo, il controllo delle persone a cosa potrebbe mai condurmi?
Prendere il controllo sulle persone è una delle cose più semplici da poter mai realizzare. Tutte hanno un computer e tutte hanno uno smartphone. Se attraverso questi macchinari raggiungessi determinate persone e con il controllo di movimenti riuscissi a controllare le loro azioni e le loro movenze, potrei piegarle alla mia volontà e farle fare tutto ciò che voglio.
I computer sarebbero veicoli di accesso e le mie abilità di controllo riuscirebbero a piegare gli animi di tutti i miei target. Il risultato sarebbe un controllo totale delle persone.
E cosa potrei mai realizzare con un potere simile?
Basterebbe instillare odio, depressione, rabbia ed istinti suicidi per creare degli haters disposti a tutto. Basterebbe l'aggiunta di questi ingredienti ed otterrei delle perfette macchine da morte.
Basterebbe creare degli haters e potrei uccidere tutta la gente che voglio.

martedì 16 maggio 2017

#30 Paure dell'uomo: alluce del piede

Rientrato a casa dalla scuola, ricordo che mi facevano malissimo i piedi. Un dolore atroce, allucinante, manco avessi trascorso le sei ore scolastiche senza sedermi.
Mia madre ancora doveva rientrare da lavoro e mio padre sarebbe rincasato direttamente per l'ora di cena. Per cui andai in bagno, calciai via le scarpe e i calzini e mi sedetti sulla tazza. Mi sentivo sfinito, afflosciato, e quel giorno non avevamo nemmeno fatto educazione fisica.
Stavo proprio per alzarmi in piedi, dopo aver terminato il mio bisogno, che notai una piccola macchia nera sul bordo di un'unghia. Si trattava dell'alluce del piede sinistro, dove avevo un'unghia non troppo lunga. Inizialmente pensai che fosse dello sporco ma poi mi accorsi che avevo indossato calzini azzurri, e la macchia era nera.
Non ci badai più di tanto comunque, infatti uscii dal bagno portandomi dietro il tagliaunghie per liberarmi del misfatto. Mi accomodai sul divano, tirai su il piede e lo poggiai sull'altra gamba. Cercai di togliere con le dita lo sporco, ma non veniva via. Era come inchiostro, come se la mia unghia fosse pitturata dal basso.
Non ti tagliare le unghie troppo sotto che poi ti fanno male le dita!
Mia madre lo diceva sempre e puntualmente tagliavo le unghie molto poco per non rischiare. Quella volta però dovevo tagliare un po' più sopra, altrimenti non avrei eliminato tutto lo sporco. Arrivai alla giusta altezza con le lame e strinsi. L'unghia fu tagliata e cadde a terra. Problema risolto. Ne restava solo un po', sporgente da un piccolo frammento irregolare di unghia. L'afferrai con due dita e tirai. Mi si staccò il dito del piede.
Sì, proprio così. Mi si staccò il dito. Cadde via, come se fosse stato incastrato alla giuntura e non unito. Come un pezzo di lego viene separato dall'altro, il mio dito venne via. Lo vidi ruzzolare a terra con un rumore flaccido, senza sporcare. Non usciva sangue, non sentivo dolore. Mi si era staccato il dito, tanto che riuscivo a vederne i filamenti bianchi dei tendini e quelli violacei delle vene, oltre che la cartilagine e l'osso, ma non usciva sangue. Il dito caduto in terra sembrava tutt'altro che cadaverico o in cancrena. Si era semplicemente staccato.
Urlai dallo spavento, e maledissi me stesso per non essermi tenuto quella macchia sotto l'unghia. Cosa mi era saltato in mente? Cosa avevo intenzione di fare? Mia madre mi avrebbe ucciso! Mi ero staccato il dito del piede! Non mi avrebbe mai perdonato per aver fatto una cosa simile! Ma poi ... come era stato possibile? Come glielo avrei giustificato? Come glielo avrei spiegato? Cosa avrei detto alle persone e a tutti? Ho perso il dito? Si è staccato mentre lo pulivo! Chi mi avrebbe mai creduto?
Cominciai a respirare a fatica, venendo colpito da forti palpitazioni e da una tremenda tachicardia. Mi sentivo morire. Sudavo freddo. Sudavo caldo. Avevo i capogiri. Cosa dovevo fare? Chiamare mamma? Chiamare un'ambulanza? Prendere il dito da terra e riattaccarlo?
Lo guardavo a terra spaventatissimo, come se fosse un occhio dalla sclera rossa e la pupilla bianca. Sembrava osservarmi, scrutarmi, giudicarmi. Sembrava essere la prova dei miei errori. Quando quella volta ho trasgredito, quando quell'altra volta ho esagerato, quando quell'unica volta ho reagito male. Queste cose erano racchiuse in quel dito, in quella macchia nera che si era divisa da me.
Bussarono all'improvviso alla porta ed io, per la paura, svenni sul colpo.
Quando mi risvegliai, mia madre era in cucina ed io ero sul divano. Avevo ancora il dito attaccato al piede, ma sull'unghia c'era la macchia nera...

mercoledì 26 aprile 2017

#19 Paure dell'uomo: il fantasma della cantina

Dopo la morte di mio padre, nessuno della nostra famiglia mise più piede giù in cantina. Mio padre era quello che riparava tutto in casa, quello che pitturava, quello che si occupava di tutte le manutenzioni. Conservava tutti i suoi attrezzi in cantina, di conseguenza era un luogo che raramente qualcun altro visitava. Una volta che l'infarto lo stroncò nel sonno senza una ragione plausibile, la cantina divenne semplicemente una porta che nessuno voleva aprire. Se c'erano delle riparazioni da fare, io, mia madre e mio fratello maggiore chiamavamo gli esperti del settore.
Un giorno però, trovatomi da solo a casa dopo la scuola, sentii un forte rumore provenire dal pavimento, come se qualcosa fosse caduto provocando un grosso tonfo. Pensai a qualche topo o a qualche altro animale che bazzicando la cantina aveva fatto cadere un oggetto, per cui decisi di andare a dare un'occhiata. Aprii la porta con cautela, venendo sopraffatto da una purulenta zaffata di aria stantia, che quasi mi fece lacrimare gli occhi. Non facevamo arieggiare quel posto da secoli.
Accesi la luce e pian piano cominciai a scendere i cigolanti gradini di legno. Lì per lì mi pietrificai, e quasi mi misi a urlare pensando che fosse un ladro, ma poi quell'ombra in fondo alla stanza mi disse di stare calmo. Afferrai la prima cosa che mi capitò a tiro, una chiave inglese, e gli intimai di non muoversi e di dirmi cosa ci faceva lì.
"Sono un fantasma, caro mio. Sono morto più di ottanta anni fa, non potresti farmi del male neanche se ci provassi. Stai calmo, va tutto bene".
Lo fissai inorridito, mentre faceva dei piccoli passi verso di me. Eppure quelli non erano passi, non aveva i piedi. Svolazzava. Il suo mezzo busto superiore finiva all'altezza della cintola, poi c'era il vuoto. Stranamente non mi sentivo più tanto spaventato, l'idea che fosse un fantasma e non un ladro, mi aveva acquietato in un certo senso.
"Co... co... cosa ci... fai qui?".
"Mi suicidai parecchi anni fa, per solitudine. La mia grande nemica vinse ed io mi impiccai qui sotto. Sono qui alla ricerca eterna dell'amicizia e dell'amore, le due nemiche acerrime della mia carnefice".
"Mmm... mmm... ma hai mai... incon... trato... altre persone?".
"Certo! Come no! In questi tantissimi anni, ho incontrato tantissime persone!".
"Ness... uno... ti ha ai... ai... aiutato a trovare pace?".
"Soltanto uno, ma non ha funzionato".
Lo fissai spaventato, il suo volto era triste. Un uomo sulla quarantina, calvo, dal colore cinereo e trasparente, degli occhi roventi e accesi. Fluttuava e mi guardava con serenità e tristezza.
"Siediti", mi disse. "Voglio raccontarti la storia di chi mi ha aiutato, la storia dell'uomo a cui ho fermato il cuore per potergli permettere di essermi amico per sempre".
Dietro di lui, in fondo alla stanza, intravidi il profilo di mio padre...

giovedì 20 aprile 2017

#15 Paure dell'uomo: ratti

Jane sentiva il rumore attraverso le pareti, li sentiva arrivare. Era uno zampettare sommesso, indistinto, implacabile. Percorreva tutte le mura e si chiudeva intorno a lei provenendo da tutte le direzioni, come se la stessero accerchiando. Loro erano lì, loro potevano prenderla, loro potevano aspettare all'infinito il momento giusto in cui ucciderla. Doveva solo distrarsi, addormentarsi, voltarsi, e loro avrebbero attaccato. Lei lo sapeva.
Le cose non erano sempre state così, decisamente no. Lo erano diventate dopo la tragica morte di una sua coinquilina. Era successo due settimane prima, all'improvviso. Tutti gli occupanti della casa erano in cucina, ognuno impegnato in qualcosa. Chi nel chattare, chi nel leggere, chi nel fumare, chi nel parlare al telefono. Tutti erano lì e tutti erano altrove con la mente. La sua coinquilina si era alzata in piedi per raggiungere il frigorifero e ad aveva inaspettatamente urlato: "un ratto!", prima di scivolare e sbattere la testa sul pavimento. L'avevano portata di corsa all'ospedale, ma per lei non c'era stata nessuna via di salvezza. La botta era stata fortissima, il trauma irreparabile. Nessuno aveva però visto il topo, oltre a lei, neanche coloro che erano poi rimasti a casa quel giorno. Nessuno vide mai quel ratto, ma quella sua comparsa era costata loro l'amica e la serenità. Un velo di tristezza si era abbassato su tutti da quel giorno, un velo che aveva colto maggiormente Jane, la quale credeva nell'esistenza del topo a differenza degli altri.
Oltre alla tristezza, tutti quanti loro avevano cominciato a manifestare dei strani sentimenti e delle strane reazioni verso la morte dell'amica. Dicevano ch'era colpa sua, che se l'era cercata per il suo essere visionaria. Vedeva i mostri. Vedeva i fantasmi. Era una stupida che è morta per un topo. Più gli altri dicevano cattiverie e trasformavano la tristezza in odio verso la defunta, più Jane cominciava ad avvertire che il topo esisteva davvero. Non era solo. Lei poteva sentirlo. Erano tanti. Tantissimi. Si nutrivano di quell'odio. Di quel cattivo sentimento, nato senza motivo, senza ragione. I ratti erano lì, bramavano tutti quanti. Più disprezzavano, più ardevano le brame.
Dopo due settimane Jane li sentiva ovunque. Nel soffitto, nelle pareti, sotto il letto, nei vestiti. Poteva sentire l'odore immondo, l'odore di fogna, di immondizia, di morte. Crepitavano attraverso ogni cosa, respiravano flebilmente, le loro code provocavano fruscii. Aveva paura di uscire dalla sua stanza, di chiudere gli occhi, di dormire, di chiamare aiuto, di chiedere agli altri se anche loro li sentivano. Cosa stava succedendo? Perché poi?
Jane fu ritrovata suicida nel suo letto alcuni giorni dopo. Tuttavia nessuno mai vide neanche l'ombra di un ratto in quella casa, sebbene dall'autopsia furono ritrovati dei piccoli morsi da roditore sulle sue dita dei piedi.

domenica 16 aprile 2017

#13 Paure dell'uomo: coniglietto pasquale

"Il gioco è molto semplice bambini!", spiegò l'uomo vestito da coniglietto pasquale sotto quel caldissimo sole d'Aprile. "Tutti voi andrete dietro quella siepe e chiuderete gli occhi, io seppellirò quattro ovetti colorati e poi farò un fischio. Quando voi mi sentirete fischiare, salterete fuori e comincerete a cercare le uova. I quattro bambini che troveranno gli ovetti, avranno uno spleeeeeeeendido regalo!".
Tutti i bambini annuirono, fissando la grossa figura di coniglio bianco che avevano davanti, e andarono a nascondersi.
Noi genitori eravamo in casa, intenti a consumare un fantastico aperitivo/buffet. L'idea di organizzare una festicciola di Pasqua tra tutte le famiglie del quartiere era partita dal nostro rappresentante comunale, il quale aveva pubblicato su internet un annuncio per cercare un animatore con esperienze di questo genere. Aveva risposto un uomo di trent'anni, pelato, pallido e solare, i cui occhi azzurri riuscivano a trasmetterti serenità e a farti sentire a tuo agio. Aveva detto che faceva questo mestiere da anni, e che aveva cominciato nel ramo dell'animazione da spiaggia. Aveva poi fatto teatro, e alla fine era entrato in una grande agenzia di animazione che spaziava in più categorie. Ora erano due anni che lavorava in proprio, ma aveva un grande giro di clienti.
All'esterno della villa riuscivamo a sentire la musica cauta e dolce dello stereo, il fischiettare del giovane e le urla entusiaste dei bambini. Potevamo goderci i nostri drink, potevamo sgranocchiare in santa pace le nostre patatine e mini-quiche. C'era una tranquillità beata, pacata, meritata. Non potevamo aspettarci una Pasqua migliore.
Il prezzo che l'uomo ci aveva chiesto era stato veramente misero, tant'è che per semplice magnanimità d'animo avevamo acconsentito a dargli più di quanto chiedeva, considerando che il meteo prediva un sole intenso e caldo. Stare per quasi quattro ore in un costume da coniglio sotto al sole, sarebbe stata una sofferenza grossa. 
Il travestimento in sé però era alquanto scialbo e brutto. Semplicissimo. Bianco e rosa, con grandi orecchie e grandi zampone. Da un professionista ci si poteva aspettare di meglio.
Stavamo proprio brindando alla salute di tutti noi e alla bellezza di quello splendido giorno, quando la musica s'interruppe all'esterno della casa ed un silenzio tombale cadde su ogni cosa, facendoci rabbrividire. Anche l'uomo aveva finito di fischiettare. Ci guardammo inorriditi, gli occhi sgranati. Cos'era successo? Un calo di corrente? Un corto circuito? Possibile che il silenzio potesse manifestarsi così repentinamente.
Allarmati corremmo all'esterno, cercando di capire cosa fosse appena accaduto. L'uomo ci salutò, vanga alla mano e sporco di terra. Uno alla volta aveva seppellito vivi tutti i bambini...

giovedì 13 aprile 2017

#12 Paure dell'uomo: Diavolo ambulante

Il Diavolo, affannato, appoggiò il grosso telone a terra, a ridosso del marciapiede. Trasportare sessanta chili in spalla, esattamente come Babbo Natale, non è un'impresa facile né agevole. Si asciugò il sudore, si accese una sigaretta e si sedette a terra, usando il sacco come schienale. Oggi aveva tantissimi oggetti, tantissime cose da vendere, molte di grande valore, altre di semplice rarità e curiosità. Avrebbe attirato molta attenzione, e se tutto fosse andato per il meglio sarebbe riuscito a piazzare più di tre o quattro cose.
L'assurda diceria che gli uomini vendono l'anima al Diavolo in cambio di fama, potere e soldi, è una sciocca storiella di cui non si è mai scoperta la fonte. Non è mai stato il Diavolo a comprare le anime dalle persone, sono le persone che comprano il male dal diavolo. Nella cosiddetta battaglia tra il bene e il male, l'Astro del Mattino non è nemmeno convinto che il bene esista, visto che l'uomo pratica il male senza che egli gli venda nulla. Se cerca di dare un po' di sé alle persone è soltanto per accaparrarsi seguaci che potrebbero rivelarsi utili allo scoccare della guerra, una guerra che logicamente potrebbe non verificarsi mai. Il Diavolo è un poveraccio, ambulante, venditore d'occasione, il quale cerca di piazzare frammenti della sua anima alla gente che non ha bisogno di incoraggiamenti per far soffrire gli altri, così da poterne ricavare forza e sostentamento. Il Diavolo cerca di succhiare il male dalla gente per sopravvivere, per sostentarsi, per poter ancora esistere.
Gli occhi rossastri, la bombetta, il vestito elegante, lo sbuffo di fumo che puzza di zolfo. Cosa ha fatto il Diavolo per essere tale? Ha semplicemente capito in cosa consiste la malignità. Gli uomini cattivi non sono esattamente consapevoli della propria cattiveria. In questo specifico caso, gli uomini consapevoli non sono altro che demoni.
Aprì il telo una volta finita la sigaretta, lo dispose e posizionò alla bene e meglio tutto il suo materiale. Frullatori, set da cucina, giocattoli, libri, ferri da stiro, vestiti. Ogni cosa aveva una scheggia del suo cuore nero ed un frammento della sua anima infuocata. Nessun uomo buono sarebbe stato attirato da quegli oggetti, il richiamo risuonava soltanto con il male, a cui si sarebbe poi attaccato come una sanguisuga.
"Eccoci qui! A me gli occhi! Chi desidera oggetti di valore così malignamente scontati?".
E tu? Senti il richiamo? O hai già comprato qualcosa?

martedì 11 aprile 2017

#10 Paure dell'uomo: Clown

Il bambino non riusciva a fare altro che fissare il clown al centro del telone. Tutte le persone che ammiravano lo show dei giocolieri, l'odore del popcorn caramellato, la puzza del piscio di animali sequestrati, le luci smorzate che cercavano di illuminare ogni angolo. Eppure il ragazzino non riusciva a fare altro che fissare le palle colorate che il clown faceva roteare tra le mani. Una rossa, una gialla, una blu, una verde ed una rosa. Erano strane. Avevano dei disegni particolari. La rosa era quella che lo inquietava di più, pareva fuori luogo.
Quel circo era lì da più di una settimana, stava incassando tantissimi soldi con il tutto esaurito ogni sera. In quella piccola cittadina di spettacoli simili se ne vedevano veramente pochi durante l'anno, per cui la novità riusciva sempre a fruttare un bel po' di soldi. C'erano le tigri, i cerchi infuocati, la donna cannone, i clown, gli elefanti, gli equilibristi, i funamboli e i giocolieri. C'era di tutto, anche i chioschi posti ai quattro angoli del grandissimo telone erano in grado di fornirti e rifocillarti praticamente con ogni cosa. Tutto era puramente circense, tutto era perfetto. Per il bambino però quel clown al centro esatto dello spiazzale non c'entrava nulla con tutto questo mondo.
I colori blu e bianchi che gli tingevano il viso erano stinti e macchiati, come se li avesse portati sul viso per giorni senza mai rinforzarli o rifarli. Il sorriso color rosso acceso attorno alle labbra sembrava incrostato, come sangue rappreso, ed aveva invece un colore intenso rispetto alle altre pitture. Quel clown non sorrideva e non appariva in nessuno degli spettacoli della serata, stava lì al centro di tutto a far roteare le sfere colorate tra le mani. Emanava una strana puzza, stantia, antica, e i suoi vestiti erano logori e consunti, sebbene non mostrassero cenni di cedimento o strappi visibili. Chi era quell'uomo? Si chiedeva il  fanciullo. Non faceva ridere come clown, non attirava l'attenzione, non sorrideva, non intratteneva, non faceva ridere la gente. Faceva roteare le palline, era bravo in questo, ma era concentrato solo in questo. Non si guardava neanche intorno.
Il bambino si avvicinò, il clown colse la sua presenza ma cominciò a guardarlo giusto con la coda dell'occhio. C'era puzza di sangue, puzza di morte.
La pallina rossa a strisce marroni era un pomodoro marcio. La pallina gialla era un uccellino decapitato. La pallina blu era un fungo avvelenato e fetido. La pallina verde era del muschio appallottolato.
La puzza era veramente insopportabile, il bambino sentiva di dover vomitare.
La pallina rosa era la testolina imbalsamata di un neonato...
In quel momento il clown cominciò a sorridere...

giovedì 23 marzo 2017

#1 Paure dell'uomo: Autopsia

Se devo essere sincero, io adoro il posto in cui lavoro. Silenzioso, freddo, buio al punto giusto, intimo, spazioso, solitario. Le mattonelle bianche lucide che risplendono lievemente grazie all'unico neon rumoroso della stanza mi hanno sempre dato conforto, esattamente come il mio carrello d'acciaio con gli attrezzi per autopsia. Mi sento padrone nel mio obitorio, giustiziere, giudice. Sono io che so cosa fare, sono io che spiego agli altri cosa devono sapere. Le persone ascoltano, i morti mi rispettano. Posso stare tranquillo e lavorare senza intralci ed intoppi. Lo stipendio poi non è male.
Quel martedì avevo cinque casi da esaminare, cinque persone che erano morte in maniera quantomeno atroce di cui era stata richiesta un'autopsia per accertarne le cause del decesso. Quel giorno il neon oltre ad emettere il solito suono ronzante, aveva un tremolio sottile che ogni tanto faceva traballare la luce. Arrivai all'obitorio quando ormai era già passata l'ora di cena e sapevo che probabilmente avrei dovuto lavorare fino al mattino successivo. Non era di certo la prima volta che restavo di notte, la gente non muore mai negli orari comodi per i medici legali.
Presi la prima cartella dopo aver indossato il camice e scoprii che era una donna, giovane, giovanissima. Venticinque anni al massimo, bruna, carnagione chiara. Quando rimossi completamente il lenzuolo bianco, oltre a notare le sue deliziose, formose e morte nudità, scorsi facilmente otto ferite da taglio sull'addome, di cui una proprio sotto al seno sinistro, un seno gonfio e giovane. Sul rapporto della polizia c'era scritto che era stata ritrovata in un lago di sangue con il suo fidanzato in lacrime e un coltello in terra. Lui negava, negava. 
Non era stato lui. Il neon sembrava esserne infastidito e cominciò a traballare di più.
Erano una coppia perfetta, si amavano da più di un anno. Non era stato di certo lui ad ucciderla. L'aveva trovata così. Chi? Chi era stato? Questo voleva sapere! 
Il neon era arrabbiato. 
Quel caso era una formalità, era già chiaro il motivo per cui fosse morta. Quel che si poteva aggiungere era qualche altro dettaglio, magari droghe assunte o alcool, malattie veneree, ferite da stupro, altre diverse ferite da colluttazione, sperma. Un corpo morto può parlare più di una bocca viva.
La guardai con tristezza dispiacendomi per quello che le era accaduto, non avrebbe dovuto succedere. Aveva una vita davanti, era giovane, troppo giovane. Dovevo impegnarmi, dovevo scoprire la verità per aiutare ad incastrare il colpevole. Il neon sembrò non essere d'accordo neanche con questo pensiero.
Osservai le ferite dopo aver indossato i guanti, presi il bisturi e cominciai a calcolare da che punto iniziare a tagliare o se fosse meglio osservare più a fondo prima di iniziare. Perché le era capitato tutto questo?
Poi, dal nulla, lei aprì gli occhi. Li spalancò totalmente. Azzurri, profondi, vitrei. Mi fissò spaventata e arrabbiata allo stesso tempo. Io rabbrividii, raggelai, svenni quasi. Il neon stava letteralmente impazzendo, a breve sarebbe esploso.
"È stato lui! Mi ha stuprata... ho reagito... mi ha ucciso per fermarmi... ho bisogno di andare da lui... posso?", parlò con una voce gutturale e spettrale, cercando di fermare il proprio labbro che si incurvava involontariamente all'ingiù. Ero una statua di sale, non risposi.
Si alzò, mi prese il bisturi dalle mani e nuda andò via, mentre io non riuscivo neanche a voltarmi.
Aprì la porta e andò via. Il neon esplose con un fragore assordante. Mi appoggiai al carrello per non cadere. Gli altri morti cominciarono a mugolare...