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sabato 26 agosto 2017

#1 Le espiazioni: annegamento da fumo

Solomon mi si avvicinò portando con sé un grosso raccoglitore pieno di fogli.
"Se non hai portato un'immagine con te, qua posso mostrarti varie versioni di cobra da poterti tatuare".
Afferrai il librone e mi parve che pesasse centinaia di chili. Me lo poggiai sulle gambe, sentendo le ossa e le articolazioni lamentarsi per il dolore. Cominciai a sentirmi confuso e leggermente rintontito, e questo mi portò a focalizzarmi su uno dei tattoo che l'uomo aveva sul bicipite destro.
"Cos'è quella nuvoletta spumosa e brumosa che hai? Sembra viva, lucida e irreale", domandai incuriosito e rapito dall'immagine.
"Sicuro di volerlo sapere?".
"Sì", mi ritrovai a rispondere senza neanche averne la consapevolezza.
"Beh...", cominciò lui.

Stu era un uomo di quarant'anni, pelato e con gli occhiali. Lavorava in ufficio senza sosta stressandosi dalla mattina alla sera e passava poco tempo con la propria famiglia. Non aveva mai fatto mancare niente ai suoi cari, se non la propria presenza. Era però giustificata quest'ultima e quindi nessuno osava rinfacciarglielo in qualche modo. Chi d'altronde avrebbe potuto?
Stu aveva un simpatico vizio, in fondo ogni uomo ha il proprio... c'è poco da fare. A Stu piaceva fumare, a Stu piaceva fumare un sacco. Consumava in effetti circa quaranta sigarette al giorno e non desiderava altro se non l'inizio di una nuova giornata per poterne fumare altre quaranta. Non ne poteva fare a meno, anche se gli effetti erano visibili, considerato l'affanno costante che si trascinava dietro da anni. 
Quando decise di farsi un tatuaggio, il nome di Solomon gli capitò davanti agli occhi per caso. Un post sponsorizzato su Facebook apparì dal nulla sulla home che saltuariamente faceva scorrere.
I tattoo di Solomon non si pagano, i tattoo di Solomon sono gratuiti. L'artista però esige un altro tipo di prezzo da te. Dovrai fronteggiare i tuoi peccati, ammetterli ed espiarli. Altrimenti i peccati espieranno te.
E così era corso a farsi un tatuaggio, una roba da poco, una roba scontata. Un piccolo laghetto al tramonto con un colibrì. Adorava i colibrì, era una delle specie animali che lo affascinava di più. La velocità del loro battito d'ali, il poter restare sospesi ad aspettare... ad osservare. Una velocità che lui non aveva più da molto tempo ormai, a causa di quel dannato affanno.
Quando uscì dallo shop con il disegno nero sul petto, si rese conto che in effetti non gli aveva fatto per niente male. Anzi, si sentiva stranamente bene, rilassato, come se si fosse tolto un peso dallo stomaco.
Decise di fumarsi una sigaretta, per cui si fermò sotto un albero e cavò il pacchetto dalla tasca. Ne prese una, l'avvicinò alla bocca e l'accese inspirando una profonda boccata. Il sapore che sentì fu però di sangue.
Sangue. Sangue. Sangue. Dentro di sé una fontana in piena sgorgava e riempiva gli anfratti. Emetteva e s'infiltrava in ogni orifizio ed insenatura. Il sangue si muoveva come mille serpenti e annegava qualsiasi cosa ci fosse da annegare. Il sapore metallico che sentiva nei polmoni era così intenso che sembrava avergli permeato il cervello. Tossì, tossì pesantemente, ritrovandosi un grumo di sangue sulla mano. Si spaventò ed alcune lacrime gli riempirono gli occhi. Cominciò a vedere rosso, perché quello che piangeva erano lacrime sangue.
Un'ombra si stagliò all'orizzonte, sfocata ed indistinta. Lo fissava accecandolo con il tramonto alle sue spalle e restava in attesa come un colibrì pensante. Stu si strappò la camicia e notò che il suo tatuaggio non c'era più, era svanito. Ma perché? Come mai?
Prima che potesse rispondere a tutto questo, il sangue interiore aumentò e il suo tossire anche. E Stu svanì come una nuvoletta di fumo perché non aveva ascoltato le parole di Solomon.
Non aveva espiato il peccato che avrebbe dovuto.

venerdì 2 giugno 2017

#13 Horror Club: l'uomo che mangiava i vestiti

Lavorava ormai da anni in quella gigantesca lavanderia industriale, tant'è che mancava poco alla sua promozione a caporeparto. Non era un mestiere molto faticoso, anche perché con l'avvento delle nuove tecnologie molti ruoli della catena di montaggio erano pressoché sostituiti dai macchinari. Erano poche le mansioni rimaste e spesso queste ultime non erano altro che tener sotto controllo il funzionamento di quelle braccia meccaniche. A lui piaceva quel lavoro, non gli dava neanche troppi problemi ... forse.
Luca ad esempio era uno di quei dipendenti che non aveva mai potuto sopportare. Un ragazzo schivo, timido, preoccupato, uno di quelli che non cerca di stringere rapporti con nessuno, ma che poi diventa una sanguisuga con l'unico essere umano a cui aveva furtivamente detto ciao. Luca aveva detto a lui ciao e Luca era diventato la sua ignobile sanguisuga. Lo perseguitava, lo seguiva, gli offriva il pranzo. A volte gli chiedeva anche come stesse sua moglie, donna che non aveva ma incontrato. Altre volte invece non lo degnava di uno sguardo ed in particolare accadeva nei giorni in cui sembrava depresso. Si presentava a lavoro abbattuto e pallido come un cencio, si dedicava con pigrizia alle sue mansioni e restava con lo sguardo nel vuoto per ore, estraniandosi dal mondo. Questo era un aspetto che lo inquietava. Ciò che però lo spaventò di più accadde un giorno in cui entrambi restarono per degli straordinari notturni.
Erano soli, avevano una mole esorbitante di lenzuola da lavare e l'unico che riusciva ad usare i macchinari più grossi non era Luca. Questo significava che avrebbero dovuto lavorare separati, uno in una stanza e l'altro in un'altra. Si trattava di alcune ore, ma il suo collega stava attraversando una di quelle giornate di depressione. Alle tre passate infatti andò a vedere come se la stava cavando e quello che vi si parò dinanzi fu impensabile.
Luca era carponi su uno dei tavoli allestito per il piegamento dei tessuti più grandi. Contorto in una posizione animalesca mangiava voracemente le lenzuola. Le addentava come se fossero prede succulente, come se fossero gazzelle divorate da un leone. I suoi occhi non avevano pupille e dalla bocca gli colava sia sangue che bava bianca. I suoi denti producevano un rumore grottesco e neanche riusciva ad immaginare come potessero lacerare le lenzuola fino ad ingoiarle. Le mani stringevano così forte quelle stoffe che parevano indemoniate. Il suo ventre era gonfio e di un colore violaceo. C'era una puzza di morte indescrivibile.
Cosa cazzo stava succedendo? Cosa diamine era preso a quell'uomo? Stava mangiando quelle lenzuola come se fossero pezzi di carne gigante! Era indemoniato? Era posseduto? Era fatto? Era impazzito?
Non cercò di farlo rinsavire per due motivi molto semplici. Il primo era legato al fatto che fosse letteralmente terrorizzato dalla situazione.
Il secondo era legato al fatto che non c'erano soltanto le lenzuola sul grosso tavolo su cui era carponi Luca, no. In un angolo, mordicchiati e appena appena lacerati, c'erano dei vestitini di sua moglie e alcuni maglioni di suo figlio.
Fino a che punto Luca era diventato la sua sanguisuga?
Non lo voleva sapere ... preferì prendere le chiavi di casa e andare a controllare come stesse la sua famiglia.

Raccontò la sua macabra storia con la sua voce squillante, cercando di dare un'intonazione adeguata ad ogni passo. Ci fece rabbrividire, sembrò essere come un doppiatore dell'orrore fuoriuscito dai tenebri fotogrammi di un film maledetto.
Controllai se i miei vestiti avessero dei morsi per puro riflesso incondizionato, quella scena era stata rivoltante e spaventosa allo stesso tempo.
Toccava a me ora, ma non avevo idea di cosa dover narrare. L'ultima storia da me detta era fuoriuscita automatica dalle mie labbra, tant'è vero che da solo mi ero spaventato. Non l'avevo inventata né pensata, era uscita dalle mie labbra e basta.
Adesso però ero vuoto, vacante, dissacrato. Toccava a me e non avevo storie dell'orrore. 
Venni salvato dall'uomo con la cicatrice, il quale alzandosi in piedi dichiarò conclusa quella prima seduta. Potevamo tornare a casa, potevamo riposare. Ci saremmo visti il pomeriggio seguente, allo stesso orario, allo stesso posto. Non dovevamo preoccuparci di niente, aveva tantissime novità di cui svelarci i misteri...

martedì 23 maggio 2017

#5 Horror Club: la macabra casa

Se potessi cambiare le cose, tu non faresti altro che fare ciò che va fatto.
Non ricordava dove aveva sentito questa frase. Un film? Un libro? Una canzone? Una poesia? Dove? E fondamentalmente cosa significava? Era una giustificazione a qualcosa? Agli errori? Agli errori degli altri?
Si lavò le mani nel lavandino della cucina, si buttò una spruzzata gelida in faccia, cercando di capire cosa fare.
La famiglia felice è quella che vive in una grossa casa che tutti amano e tutti invidiano, dove le persone vogliono essere invitate costantemente a cena. La famiglia felice è quella che va al parco con le famiglie amiche, quella che va alle feste cittadine con tutti i vicini, facendo sfoggio dell'educazione dei propri figli. La famiglia felice è quella che falcia il prato e mangia in giardino d'estate.
La famiglia felice non è quella che punisce la figlia non ancora maggiorenne che passa la notte fuori tornando ubriaca e senza mutandine. La famiglia felice non è quella dove il fratello maggiore rinchiude nell'armadio per sei ore il minore della casa. La famiglia felice non è quella che compra gli alcolici al padre di famiglia che poi picchia la moglie. La famiglia felice non è lo stupro quotidiano dell'immagine che gli altri si sono fatti di essa .
Guardò fuori dalla finestra, scorgendo la luna dietro una manciata di nuvole bluastre. C'era silenzio, c'erano orologi fermi, c'era ancora sangue sulle sue dita tremanti. Si gettò altra acqua sul volto. Doveva togliersi quei vestiti, doveva fuggire, doveva dare fuoco a tutto. Doveva dimenticare cosa cazzo era successo tra quelle maledette e stupide mura.
Suo padre che spacca la bottiglia in testa a sua sorella, sua madre che piange in un angolo. Suo padre che si slaccia la cinta e lega suo fratello maggiore. Suo padre che prende la pistola. Suo padre che comincia a sparare senza alcuna ragione. Il sangue che schizza con le cervella. Lui che piange sotto al tavolo. Nessuno si è accorto di lui tranne sua madre. Sua madre che gli dice di fuggire ora. O adesso o mai più.
Lui che corre e si ferma di colpo vicino al lavandino.
Se potessi cambiare le cose, tu non faresti altro che fare ciò che va fatto.
Ecco dove aveva sentito quella frase. Dal lavandino. Da quel lurido lavandino aveva sentito proferire quelle parole.
Lui che sgrana gli occhi, lui che afferra un coltello, lui che taglia la gola a suo padre.
Il lavandino che ride.
Tardi. Tutto troppo tardi. Suo padre aveva già ucciso tutti...

La voce dell'ultimo narratore non era una voce qualunque, non era una voce normale. Si alzò in piedi e la sua figura fu completamente illuminata dalla luce della candela. Indossava un grandissimo impermeabile verde militare che si sfilò mostrando una stazza deforme. Era pallido, ingobbito, il volto ustionato, protuberanze carnose. Le labbra erano sottilissime e i denti affilati. Raggelarono tutti dopo averlo osservato ed aver associato quella voce roca e maligna a quella figura.
Io non potei fare a meno di pensare ad un vecchio amico di famiglia. Un contadino nostro vicino di casa che, sapendo della mia passione per l'horror, mi aveva raccontato una vicenda che gli era capitata in passato (#16 Paure dell'uomo: Fuggiasco). Sembrava lui, pareva l'uomo spaventoso di quel racconto. Non potei fare a meno di pensarci.
Dopo poco si sedette e tutti ripiombammo nel buio. Cosa sarebbe accaduto adesso? Ma prima che potessi rispondere, l'uomo dalla cicatrice bluastra si alzò in piedi. Era pronto a parlare e tra le dita stringeva qualcosa di strano...

domenica 21 maggio 2017

#3 Horror Club: videogame

Comprai quel videogame horror su una bancarella abusiva per strada. Costava soltanto 92 centesimi e la sua copertina era veramente inquietante. Nera, macchiata da sangue scuro e rappreso, occhi infuocati che ti scrutavano dal buio, denti aguzzi con della bava verde. Non c'era scritto il nome del gioco e neanche chi fossero i produttori e i creatori. Essendo un esperto di quest'ultimi, trovai strano il fatto di ignorare completamente l'esistenza di quel prodotto. Pagai dunque più per curiosità che altro e il venditore fu grato per il mio acquisto. Chissà che razza di indie mi sarei ritrovato per le mani.
Tornai a casa, accesi il mio pc ed inserii il disco. Durante il tempo d'installazione chiusi le tende della mia finestra e spensi le luci. Attaccai lo spinotto delle mie cuffie e mi portai dinanzi allo schermo.
BENVENUTO. SE PER CASO TU FOSSI UNA PERSONA FACILMENTE IMPRESSIONABILE, FARESTI MEGLIO A SPEGNERE QUESTO MALEDETTO COMPUTER. SAREBBE COMUNQUE TARDI, MA POTRESTI SALVARE QUALCOSA DI TE STESSO.
Cominciavamo bene. Quella scritta mi incuriosiva tremendamente. A volte gli indie, senza nessun tipo di limitazione, contengono delle genialità che passano inosservate ai molti.
SE SEI ANCORA QUI, VUOL DIRE CHE ANCORA DEVI COMPRENDERE A PIENO LA TUA PAZZIA.
E poi il gioco partì, inaspettatamente, in maniera diretta, senza dover passare per schermate di avvio in cui poter settare opzioni, difficoltà, salvataggi, caricamenti. Il personaggio era alto e snello e indossava dei vestiti anonimi, stile casual. Si trovava in piedi in una strada di città completamente deserta, in prossimità di un vicoletto. Avanzai, guardandomi prima intorno nel caso in cui apparisse qualcosa o qualcuno alle mie spalle, e svoltai nella piccola stradina. C'era una bancarella abusiva, con un uomo identico a quello da cui avevo comprato il gioco. Attorno a lui vigeva un'aura bluastra, maligna, che mi invitava a combattere. Mi avvicinai con lentezza, rabbrividendo nella realtà. La bancarella non aveva nient'altro che teste esposte. Tantissime teste, un'infinità! L'uomo non aveva pupille e rideva perdendo bava verdastra, senza accorgersi di quanto sangue colasse a terra inzuppandogli i piedi. Sentivo la puzza di morte, anche davanti al pc.
E poi il gioco mi spense la mente e cominciò a giocare con me.
Non ricordo molto di quello che accadde. Né all'interno del gioco né all'interno della realtà.
Uccisi il venditore, gli tagliai la testa e con le mani sporche del suo sangue rimisi il gioco nella custodia, lasciando che quel liquido rosso si seccasse su di essa.
Il giorno dopo ero nel vicolo e vendevo la copia del gioco abusivamente, così ... a 93 centesimi ...

Fui io a raccontare quella storia, dopo che la ragazza con l'eterocromia si era riposizionata sulla poltrona. Mi era parso che fino a quel momento ognuno di essi avesse raccontato una storia vera, esponendo poi una parte di sé alla visione dell'altro. L'uomo dalla cicatrice blu aveva bevuto il sangue di quell'essere superiore e buono? La ragazza aveva sequestrato una giovane per soldi? Cos'era stato quel tic che le aveva fatto schioccare il collo? E poi c'entrava con la sua stranissima eterocromia?
Raccontai quella storia perché non volevo parlare delle mie cicatrici sulla schiena (#24 Paure dell'uomo: Bestia), cercando però di tenere alto il livello di tensione. Eravamo lì per una ragione, eravamo lì per regalare il vero orrore al mondo. Quelle persone mi spaventavano, dunque cercavo di non espormi troppo sebbene volessi far parte attivamente del gruppo. E poi, a dirla tutta, le mie mani sembravano ancora sporche del sangue di quel venditore abusivo, quindi perché non parlarne?

martedì 16 maggio 2017

#30 Paure dell'uomo: alluce del piede

Rientrato a casa dalla scuola, ricordo che mi facevano malissimo i piedi. Un dolore atroce, allucinante, manco avessi trascorso le sei ore scolastiche senza sedermi.
Mia madre ancora doveva rientrare da lavoro e mio padre sarebbe rincasato direttamente per l'ora di cena. Per cui andai in bagno, calciai via le scarpe e i calzini e mi sedetti sulla tazza. Mi sentivo sfinito, afflosciato, e quel giorno non avevamo nemmeno fatto educazione fisica.
Stavo proprio per alzarmi in piedi, dopo aver terminato il mio bisogno, che notai una piccola macchia nera sul bordo di un'unghia. Si trattava dell'alluce del piede sinistro, dove avevo un'unghia non troppo lunga. Inizialmente pensai che fosse dello sporco ma poi mi accorsi che avevo indossato calzini azzurri, e la macchia era nera.
Non ci badai più di tanto comunque, infatti uscii dal bagno portandomi dietro il tagliaunghie per liberarmi del misfatto. Mi accomodai sul divano, tirai su il piede e lo poggiai sull'altra gamba. Cercai di togliere con le dita lo sporco, ma non veniva via. Era come inchiostro, come se la mia unghia fosse pitturata dal basso.
Non ti tagliare le unghie troppo sotto che poi ti fanno male le dita!
Mia madre lo diceva sempre e puntualmente tagliavo le unghie molto poco per non rischiare. Quella volta però dovevo tagliare un po' più sopra, altrimenti non avrei eliminato tutto lo sporco. Arrivai alla giusta altezza con le lame e strinsi. L'unghia fu tagliata e cadde a terra. Problema risolto. Ne restava solo un po', sporgente da un piccolo frammento irregolare di unghia. L'afferrai con due dita e tirai. Mi si staccò il dito del piede.
Sì, proprio così. Mi si staccò il dito. Cadde via, come se fosse stato incastrato alla giuntura e non unito. Come un pezzo di lego viene separato dall'altro, il mio dito venne via. Lo vidi ruzzolare a terra con un rumore flaccido, senza sporcare. Non usciva sangue, non sentivo dolore. Mi si era staccato il dito, tanto che riuscivo a vederne i filamenti bianchi dei tendini e quelli violacei delle vene, oltre che la cartilagine e l'osso, ma non usciva sangue. Il dito caduto in terra sembrava tutt'altro che cadaverico o in cancrena. Si era semplicemente staccato.
Urlai dallo spavento, e maledissi me stesso per non essermi tenuto quella macchia sotto l'unghia. Cosa mi era saltato in mente? Cosa avevo intenzione di fare? Mia madre mi avrebbe ucciso! Mi ero staccato il dito del piede! Non mi avrebbe mai perdonato per aver fatto una cosa simile! Ma poi ... come era stato possibile? Come glielo avrei giustificato? Come glielo avrei spiegato? Cosa avrei detto alle persone e a tutti? Ho perso il dito? Si è staccato mentre lo pulivo! Chi mi avrebbe mai creduto?
Cominciai a respirare a fatica, venendo colpito da forti palpitazioni e da una tremenda tachicardia. Mi sentivo morire. Sudavo freddo. Sudavo caldo. Avevo i capogiri. Cosa dovevo fare? Chiamare mamma? Chiamare un'ambulanza? Prendere il dito da terra e riattaccarlo?
Lo guardavo a terra spaventatissimo, come se fosse un occhio dalla sclera rossa e la pupilla bianca. Sembrava osservarmi, scrutarmi, giudicarmi. Sembrava essere la prova dei miei errori. Quando quella volta ho trasgredito, quando quell'altra volta ho esagerato, quando quell'unica volta ho reagito male. Queste cose erano racchiuse in quel dito, in quella macchia nera che si era divisa da me.
Bussarono all'improvviso alla porta ed io, per la paura, svenni sul colpo.
Quando mi risvegliai, mia madre era in cucina ed io ero sul divano. Avevo ancora il dito attaccato al piede, ma sull'unghia c'era la macchia nera...