sabato 21 dicembre 2019

#1 Depression: un nobel a doppia faccia


Una medaglia ha sempre due facce, ma entrambe hanno la stessa forma e condividono lo stesso spessore e materiale.
Una clessidra ha sempre due lati, ma il loro volume è il medesimo come anche il tempo che occorre alla sabbia per viaggiare da una parte all'altra.
Anche un essere umano è diviso in due metà, una visibile a tutti e l’altra celata, ma il corpo che le ospita, il cuore che le sorregge e il cervello che le comanda a volte non riescono a distinguerle.
Quella serata si basò proprio su questa legge universale, scindendosi in due momenti distinti e separati il cui perno di giunzione fu il Dottor Sterling, il cui segreto era sconosciuto pressoché a tutti.
Quel 10 dicembre sera la sala Konserthuset era così gremita che i respiri di tutti i presenti erano in grado di viziare l’aria anche con le finestre aperte e, nonostante non facesse poi chissà che caldo primaverile all'esterno, l’ambiente era tiepido e accogliente, seppur devastato dai costanti e fastidiosi bisbigli della folla. Tutte le poltrone rosse erano occupate, tutta la gente indossava smoking, maestosità e cultura. I tappeti porpora con arabeschi dorati erano di una bellezza inaudita, proprio come quei quadri settecenteschi che abbellivano il salone, coprendo piccoli sprazzi della carta da parati floreale su base bordeaux. Un grosso lampadario di cristallo irrorava luce e lucentezza su tutti gli animi e il palco di legno scuro, il cui sipario era già aperto, sosteneva un leggio del medesimo colore mogano e un microfono silente illuminato da una decina di faretti.
Si trattava della premiazione e assegnazione dei premi Nobel del 2019 e Tim Sterling doveva ricevere la sua consacrazione definitiva, ritirando la propria targhetta per la sezione di medicina. Alcuni mesi prima aveva finalmente diagnosticato la depressione come patologia non solo psichiatrica, ovvero un comune disturbo dell’umore, bensì anche fisico-neurologica iniziando poi uno studio ben finanziato per ricercare una cura efficace per debellarla, che fosse chirurgico-invasiva o meno. Era riuscito a trovare più di duecento soggetti, la cui forma depressiva acuta mostrava segni tangibili all'interno del tessuto cerebrale, ma in alcuni casi, oltre ai sintomi ormai ufficializzati dai manuali diagnostici per la comparte psicologica e dal medico per quelli fisici, era possibile notare altri campanelli d'allarme nell’organismo in grado di diagnosticare al 100% la presenza della depressione. 
Non era un virus, non era un’infezione, non era un cancro e non era batterica. Non c’era tuttavia un vero e proprio modo per definire quella tipologia di malattia a cavallo tra la psicosi, il malessere psicosomatico e l’alterazione del funzionamento degli organi. Ma i sintomi esistevano, non era tutto frutto di una mente traumatizzata o di una personalità deviata, una bassa autostima o un umore settato verso il basso. Si trattava di sintomi fisici reali e con essi c’erano le reazioni alla patologia, di conseguenza doveva esserci per forza di cose anche una cura, cosa su cui il medico stava appunto lavorando con quei finanziamenti. Anche perché se si fosse rivelata essere inguaribile e quindi latentemente terminale, più 350 milioni di abitanti nel mondo avrebbero corso un gran bel rischio.
Quando alle 21 chiamarono il suo nome per invitarlo sul palco a ritirare la targa, cosa più importante per lui in quel momento buio della sua carriera da neurochirurgo, dopo aver perso una decina di pazienti consecutivi nel 2018, gli tremavano le mani dall’emozione. Era sbalordito, felice e insicuro e le sue dita frenetiche non desideravano altro che infilarsi nelle tasche per prelevare la fiaschetta di tequila segreta e il suo pacchetto di sigarette alla menta, le sue uniche debolezze umane, che tra l’altro un medico che si rispetti non dovrebbe neanche lontanamente avere.
Salì i gradini di legno che non scricchiolarono sotto la sua mole esile ed emaciata, simbolo emblematico di un uomo che non aveva mai fatto un giorno di palestra in vita propria, ma che possedeva un metabolismo così accelerato da farlo apparire magro anche a 40 anni e con la pancetta da beone. Avanzò nei suoi pantaloni beige a sigaretta, lasciando che i suoi mocassini neri si godessero il luccichio dei faretti che si specchiavano. Gli diedero un’auricolare con microfono prima di qualsiasi altra cosa, in modo tale che potesse ricevere istantaneamente la traduzione di ciò che si sarebbe detto, fornendo ovviamente anche a loro la possibilità di tradurlo per l’uditorio. Protese la mano per stringere quella dell’uomo baffuto e stempiato che reggeva la targhetta e poi venne detto qualcosa in svedese e lui sorrise sentendo la voce suadente di una donna ripetergli la frase in italiano.

“Non so come abbia fatto a non ridere in quel momento o comunque a non provarci con la dolce vocina che mi sussurrava cose mediche all’orecchio”, dichiarò Sterling in una botta di ilarità, sbattendo il bicchiere di scotch vuoto sul bancone di legno, mentre l’uomo al suo fianco lo imitava lasciandosi cogliere da un accesso di risa esorbitante.
“Ero in terza fila, ma non sono riuscito a vederti bene. Avrai avuto la faccia di uno che sta per scoppiare!”, aggiunse il suo compagno di bevute momentaneo, un certo scrittore di altri tempi che non aveva vinto alcun premio quella sera ma che era da considerare un ospite fisso ad ogni premiazione. Aveva grossomodo la sua età, ma sembrava ridere per le cose più stupide mai viste o forse erano tutti quei bicchierini vuoti che avevano davanti a rendere felice l’aria del bar post-nobel.
Il locale era gremito, come lo era stato il salone di un’oretta prima, solo che non si trattava della stessa tipologia di gente in smoking e latinismi, sebbene il locale fosse comunque un pub pittoresco e rinomato in fondo alla stessa via dove c’era la sede della premiazione a Stoccolma, ovvero a meno di 150 metri da uno dei palazzi più famosi della capitale svedese.
Da quell’evento, era possibile vedere unicamente loro due in quel bar, visto che tutti gli altri presenti, che ricoprivano tutte le panche e tutti gli sgabelli, erano semplici clienti abituali, a cui piaceva esibire un certo tenore di vita e di classe anche bevendo una pinta. Era un pub tradizionale, ma per la posizione in cui era ubicato era normale che anche il prezzo di una semplice birra fosse così vertiginoso. Tutto nella regola della realtà moderna.
“Tu hai mai vinto un Nobel per la letteratura, Larry?”, chiese il medico, facendo segno al barista di portare altri due drink, questa volta doppi. Aveva la mente annebbiata e desiderava tanto fumarsi una sigaretta, ma uscire al freddo non era una buona idea, se non si fosse riscaldato il cervello almeno un altro po’.
“No, ci sono andato vicino un paio di volte, credo. È la decima volta che vengo invitato alla premiazione, ma non penso di averlo mai davvero meritato finora. Quindi non mi danno per essere ancora a mani vuote”.
I bicchieri giunsero, brindarono senza alcuna parola e fecero un piccolo sorso ciascuno. Era il momento di godersi quella brodaglia invece che ingollarla, perché in fondo era giunto il momento di cominciare i discorsi seri e smetterla con quelle fittizie chiacchiere.
“E quindi vuoi scrivere un libro su di me, così da vincerne uno”, dichiarò di punto in bianco Sterling, strizzando gli occhi per l’eccessiva forza di quello scotch. Il barista aveva per caso cambiato bottiglia o annata? Quel veleno era migliorato dal nulla.
“Ho riso troppo alle tue battute scommetto, per questo mi hai pizzicato”.
“Touché”.
“Questa è l’idea comunque, anche se mi interessa più il percorso che ti ha condotto alla diagnosi piuttosto che la tua persona”.
“Vuoi semplicemente scoprire come ho fatto a diagnosticarla, allora? Puoi leggere la mia ricerca, è tutto spiegato lì”, asserì beffardo, non riuscendo a sorseggiare il drink e mandandolo giù di colpo, sbattendo di nuovo il bicchiere sul bancone senza però fare un altro ordine.
“Non credo che spulciare le cartelle di duecento pazienti, in cui in maniera medica fai analisi del sangue e delle feci, possa aiutarmi in qualche modo”, replicò lo scrittore, imitando il suo gesto e svuotando il contenitore di vetro.
“Sigaretta?”, domandò Tim alzandosi in piedi.
“Pensavo non me l’avresti chiesto mai”, rispose Larry imitandolo nuovamente.
“Vuoi la verità, dunque?”.
“Sì, perché so che c’è molto di più dietro tutta questa storia. Posso intuirlo”.
“Allora dovremo parlare per un bel po’ e dovrai pagare parecchio alcool, anche se dubito riesca a spiegarti le cose in una sola serata. È passata la mezzanotte”.
“Troveremo il modo per parlare anche in altre sedi e altri modi”.
“Prima che esca il libro, nessuno dovrà sapere ciò che ti dirò”.
“Si capisce, non getterei mai al vento un’occasione così, spifferando la mia idea al primo che passa e rendendo pubblico il segreto che me la farà sviluppare”.
“Okay, ma dovrai tenerti forte, perché sto per dirti due cose che ti lasceranno a bocca aperta”.
“Cioè?”.
“La diagnosi iniziale non è stata mia prima di tutto e poi è stata ultimata non su quei 200 pazienti della ricerca ufficiale, ma su altri 20 ignoti... quando ormai erano già defunti da parecchio tempo”.
E la porta del pub venne spalancata da una donna con un vestito magenta, permettendo a loro di uscire e al freddo di congelare quella rivelazione per sempre nella mente di Larry.

giovedì 19 dicembre 2019

#0 Depression: GoPro sull'autostrada

Sapeva che quella avrebbe potuto essere l'ultima sera della sua vita, eppure si sentiva tremendamente tranquillo. Quella donna era stata chiara alcuni giorni prima. 
Da oggi in poi indossa questa GoPro al collo e cerca di lasciarle campo libero giusto di fronte a te, aveva detto, consegnandogli la telecamera. Era un compito duro da portare a termine, se si considerava il fatto che la fine di esso fosse appunto la sua morte. Certa tra l'altro, non probabile. La sua assoluta e definitiva morte certa. Doveva indossare quella cosa fino a quell'esatto momento.
Quelli come te non sono soli, aveva aggiunto.
E non devono esserlo più, ma per poter riuscire in questo bisogna che alcuni si sacrifichino, come le cavie di qualsiasi medicina sperimentale o i primi a subire qualche nuova e innovativa procedura chirurgica.
Aveva pensato ai suoi figli, a sua moglie, a tutti i suoi amici e altri parenti. Molti di loro sarebbero potuti finire nella sua situazione, quindi perché non sfruttare il suo già esserci per cercare di salvarli?
Per questo aveva al collo quella telecamera e per questo camminava lungo il guardrail di pietra dell'autostrada, nonostante piovesse a dirotto. Il vento era infernale e lo frustava senza sosta con raffiche d'acqua e nevischio.
Aveva qualcosa nel cervello, ma quella donna aveva detto che c'era in realtà molto di più. Aveva qualcosa che gli straziava il cuore, che gli bastonava l'anima e che prendeva la sua personalità per il collo impiccandola ad ogni istante di vita, senza stancarsi mai.
Non sapeva cosa significasse tutto questo, ma sapeva cosa sarebbe potuto accadere.
I fari di un camion illuminarono il suo viso pallido. L'assenza di sonno aveva preso a pugni i suoi occhi. Tremava perché non aveva fame e le gocce gelide che gli si accumulavano sulla pelle scoperta non lo bagnavano per davvero. Era disidratato. Avrebbe tanto voluto buttar giù un goccetto. Così, tanto per ricordare l'inizio.
Il sapore del fuoco, la parvenza di benzina. Bere lo avrebbe salvato da quell'autostrada, fatta di pece nera e linea di mezzeria tratteggiata. Camminava nella direzione opposta al senso di marcia e si trovava a lato esterno della carreggiata. Finora non aveva ancora incontrato una piazzola di sosta e si era concentrato completamente sul tenere la GoPro fissa innanzi a sé. Nessuno lampeggiava i fari nella sua direzione, ma lui si sentiva accecato.
Nessuno suonava il clacson per segnalargli di stare attento e scendere da quel luogo non fatto per i pedoni, eppure lui era assordato da un rumore continuo.
Quella bottiglia.
Quel finestrino.
Quel vecchio disco graffiato.
Si fermò perché il fiato iniziò a mancargli.
Quando prese a fissare le auto instancabili, dall'altro lato della corsia c'era un bambino di una decina d'anni. Aveva una felpa scura con il cappuccio ben piantato in testa. Con un piede appoggiato sul triangolo di segnalazione per gli incidenti, provava ad allacciarsi le scarpe, ma non ci riusciva perché una delle sue braccia era storta all'indietro, spezzata in una maniera indicibile e così frantumata da sembrare essere uscita da un frullatore.
"Ehi, attento!", gridò con monito l'uomo.
Il ragazzo alzò il capo e lo guardò con un sorriso strano, poiché diviso a metà da un'ustione che gli aveva devastato mezza faccia.
Sapeva chi era, altrimenti quella donna non gli avrebbe ordinato di indossare la telecamera.
Pianse di getto, lasciando che quell'attacco di panico prendesse il sopravvento.
Poi attraversò l'autostrada senza guardare, ma almeno la GoPro tenne gli occhi aperti per tutto il tempo.